
di Joseph Campbell
(tratto da Miti per vivere, ed. Oscar Mondadori)
Nella primavera del 1968 fui invitato a tenere una serie di conferenze sulla schizofrenia
all'Istituto Esalen di Big Sur, in California; l'anno precedente ero intervenuto parlando della
mitologia e sembrava che Michael Murphy, il giovane e geniale direttore di quella fondazione così
interessante, ritenesse possibile una certa connessione fra i due temi. Tuttavia, dal momento che io
non sapevo quasi niente sulla schizofrenia, come ricevetti il suo invito gli telefonai.
«Mike, non so niente sulla schizofrenia,» gli dissi. «Che ne dici se invece parlassi di Joyce?»
«Ma certo, benissimo» rispose. «Però mi piacerebbe lo stesso sentire qualcosa da te sulla
schizofrenia. Cerchiamo di combinare una specie di dibattito, a San Francisco, con lo psichiatra
John Perry: tu sulla mitologia e lui sulla schizofrenia. Ti va bene?»
Allora non conoscevo Perry, ma pensai: «Bene, perché no?» Inoltre avevo fiducia in Mike
Murphy ed ero certo che avesse in mente qualcosa di molto interessante. Qualche settimana dopo
giunse per posta, da San Francisco, una busta inviatami da John Weir Perry, con la copia di un suo
scritto sulla schizofrenia pubblicato nel 19621. Da questa lettura appresi, con grande meraviglia, che
l'immaginario che si sviluppa nella schizofrenia è assai simile al viaggio dell'eroe mitologico, da me
descritto e spiegato nel lontano 1949 in L'eroe dai mille volti.
Quel mio lavoro si basava sullo studio comparato delle varie mitologie, con qualche riferimento
soltanto, qua e là, alla fenomenologia dei sogni, all'isteria, alle visioni mistiche o ad altre simili
cose. Principalmente, era una raccolta dei temi e dei motivi ricorrenti in tutte le mitologie, e allora
non avevo idea che potessero anche corrispondere alle fantasie della pazzia. Secondo il mio
giudizio, questi erano i temi e i motivi simbolici universali, archetipici, psicologici, che tutte le
mitologie tradizionali presentano: e ora, da questo saggio di J.W. Perry, venivo a conoscenza del
fatto che le medesime figure simboliche sorgono spontaneamente da quella condizione mentale di
rottura e di sofferenza che colpisce alcune persone quando vengono colte da una crisi schizofrenica.
E questa la condizione di chi ha perso il contatto con il modo di vivere e di pensare della sua
comunità e, ormai completamente isolato, si crea un mondo tutto suo di visioni e di fantasie.
In breve: lo schema abituale di questo stato prevede dapprima una rottura, un distacco
dall'ordine e dal contesto sociale in cui la persona è inserita, seguito da un lungo e profondo
ripiegamento all'interno, negli strati più profondi della psiche e, per così dire, all'indietro nel tempo.
Qui si scatena una serie caotica di incontri, esperienze oscure e terrificanti che, se la vittima è
fortunata, riescono però ad avere una funzione in un certo senso stabilizzante, di appagamento, e
infondono nuovo coraggio. In simili casi segue poi il viaggio di rinascita e di ritorno alla vita.
Questa è anche la formula universale del viaggio dell'eroe mitologico che nel mio libro avevo
distinto e definito nelle tre fasi: separazione, iniziazione e ritorno.
L'eroe si avventura fuori dal mondo abituale quotidiano in una regione di meraviglie soprannaturali,
dove si scontra con forze straordinarie e riporta una vittoria decisiva. Egli, poi, ritorna da questa
misteriosa avventura con il potere di profondere benefici sui suoi simili2.
Secondo J.W. Perry, in certi casi di schizofrenia è bene lasciare che il processo segua il suo
corso, senza arrestare la psicosi attraverso la shockterapia o altre cure del genere, ma, al contrario,
assecondando il processo di disintegrazione e poi di reintegrazione. Tuttavia, il medico dovrà essere
in grado di capire il linguaggio delle immagini della mitologia; dovrà comprendere cosa significano
1 In 'Annals of the New York Academy of Sciences', vol. 96, 27 gennaio 1962, pagg. 853-876.
2 J. Campbell The Hero with a Thousand Faces, Pantheon Books, New York, pag. 30 (trad. it. L'eroe dai mille volti,
Feltrinelli, Milano)
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 2
quei segni frammentari e quei segnali che il suo paziente, completamente staccato da una forma di
pensiero e di comunicazione razionali, tenta di far emergere per stabilire qualche contatto.
Interpretata così, la crisi schizofrenica è un viaggio, all'interno e all'indietro, per recuperare
qualcosa che è scomparso o che è andato perso, e per ripristinare, quindi, un equilibrio vitale.
Lasciamo andare il viaggiatore. La sua nave si è capovolta e sta affondando, ed egli forse sta
annegando; tuttavia, come nell'antica leggenda di Gilgamesh il profondo tuffo sul fondo del mare
cosmico permette di cogliere il fiore dell'immortalità, proprio laggiù, nell'abisso, si trova l'unico
valore per lui vitale. Per questo non dobbiamo allontanarlo da esso, ma aiutarlo a compiere il suo
viaggio e a riemergere dalle sue profondità.
Il mio soggiorno in California fu davvero meraviglioso. Le conversazioni con Perry e le
conferenze che tenemmo insieme aprirono in me prospettive completamente nuove: cominciai a
pensare al significato che il materiale mitologico, sul quale per anni avevo lavorato con entusiasmo
in modo più o meno accademico, può avere per chi vive nel disagio mentale, e alle tecniche
attraverso cui può rispondere a dei bisogni reali.
J.W. Perry e M. Murphy mi fecero conoscere un saggio, Shamans and Acute Schizophrenia (Gli
sciamani e la schizofrenia acuta)3, scritto da Julian Silverman del National Institute of Mental
Health (Istituto nazionale per le malattie mentali); anche qui trovai qualcosa di estremo interesse,
attinente ai miei studi e alle mie convinzioni. A quel tempo, in una mia opera4, avevo già messo in
evidenza che, tra i popoli primitivi dediti alla caccia, l'immaginario mitico e le cerimonie rituali
derivavano, per la maggior parte, dalle esperienze psicologiche dei loro sciamani. Lo sciamano è
una persona (uomo o donna) che, nella sua prima adolescenza, subì una violenta crisi psicologica,
qualcosa che oggi verrebbe definita una 'psicosi'. Di solito la famiglia, in ansia, per curare il ragazzo
manda a chiamare un anziano sciamano e questi, grazie alla sua lunga esperienza e attraverso
strumenti, canti, e pratiche adeguate, ci riesce. Come rileva J. Silverman: «Nelle culture primitive
ove è ammessa una simile, eccezionale risoluzione di una crisi vitale, l'esperienza fuori del normale
(lo sciamanesimo) è considerata particolarmente benefica per l'individuo, sia dal punto di vista
conoscitivo, sia da quello emotivo; si ritiene poi che egli possieda una coscienza dilatata». Al
contrario, in una cultura così razionalmente ordinata come la nostra o, per citare ancora le parole di
J. Silverman, «in una cultura che non offre guide di riferimento per capire questo particolare genere
di esperienza critica, l'individuo (lo schizofrenico) subisce una particolare intensificazione delle sue
sofferenze, che superano di gran lunga le sue ansie originali».
Vorrei descrivervi il caso di uno sciamano eschimese che, all'inizio degli anni Venti, fu
intervistato dal grande esploratore e studioso danese Knud Rasmussen. Rasmussen era dotato di una
carica umana, di una simpatia e di una comprensione per le persone davvero infinite, ed era capace
di parlare in modo meraviglioso, da uomo a uomo, con i personaggi più strani che incontrò lungo il
suo viaggio attraverso le terre artiche del Nord America, nel corso della Quinta Spedizione Danese
Thule, che tra il 1921 e il 1924 partì dalla Groenlandia e raggiunse l'Alaska.
Igjugarjuk era uno sciamano eschimese dei Caribù, una tribù che viveva nelle tundre del
Canada settentrionale. Da giovane questo stregone aveva avuto costantemente dei sogni che non
riusciva a interpretare: strani esseri sconosciuti venivano a parlargli, e quando si svegliava ricordava
tutto così bene che poteva descrivere esattamente ciò che aveva visto ai suoi amici e alla sua
famiglia. Questa, preoccupata ma anche consapevole di ciò che stava avvenendo, mandò a chiamare
un vecchio sciamano di nome Peqanaoq che, diagnosticato il caso, mise il giovane su una slitta nella
quale poteva appena stare seduto, e nel cuore dell'inverno, nella notte dell'inverno artico totalmente
3 In 'American Anthropologist', vol. 69, n. 1, febbraio 1967
4 J. Campbell The Masks of God, vol. 1, Viking Press, New York, capp. 6 e 8 (trad. it. Le maschere di Dio, Bompiani,
Milano).
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 3
buia e gelida, lo trascinò lontano. In una deserta pianura fu costruito per lui un igloo, così piccolo da
poterci stare soltanto seduti a gambe incrociate. Al giovane non fu permesso di camminare sulla
neve: sollevato dalla slitta, fu portato nell'igloo e sistemato su una piccola stuoia di pelle. Non gli
furono lasciati né acqua né cibo. Gli fu ordinato di pensare solo al Grande Spirito che sarebbe
apparso di lì a poco e fu lasciato solo per trenta giorni. Dopo cinque giorni, il vecchio stregone
ritornò portando una bevanda di acqua tiepida; dopo quindici giorni portò una seconda bevanda e un
pezzetto di carne. Questo fu tutto. Il gelo e il digiuno furono così tenibili che, come lo stesso
Igjurgarjuk disse a Rasmussen, «a volte era come se morissi un po'».
Durante tutto questo tempo il giovane pensava, pensava, pensava al Grande Spirito, finché,
verso la fine della prova, giunse infatti uno spirito amico sotto le spoglie di una donna che sembrava
librarsi nell'aria sopra di lui. Non la rivide mai più, ma ella divenne il suo spirito guida. Finalmente,
il vecchio sciamano lo riportò a casa, dove gli fu imposto di digiunare per altri cinque mesi. Come
Igjurgarjuk disse al suo ospite danese, questi digiuni, ripetuti spesso, sono il mezzo migliore per
ottenere la conoscenza delle cose più nascoste. «La sola vera saggezza,» disse Igjurgarjuk, «vive
lontano dall'umanità, nelle grandi solitudini, e può essere raggiunta unicamente attraverso la
sofferenza. Solo la privazione e la sofferenza schiudono la mente di un uomo a ciò che è nascosto a
tutti gli altri.»
Un altro potente sciamano, che Rasmussen incontrò a Nome, in Alaska, gli raccontò di una
simile avventura nel silenzio. Questo vecchio, che si chiamava Najagneq, era caduto in disgrazia: lo
sciamano, di solito, vive in una situazione piuttosto pericolosa, perché quando le cose vanno male,
la gente del villaggio tende a dame la colpa alle sue magie. Questo vecchio, per proteggersi, aveva
creato tutta una serie di trabocchetti, di trucchi e di feticci mitologici per spaventare e tenere lontani
i suoi vicini.
Rasmussen, riconoscendo che la maggior parte degli 'spiriti' di Najagneq erano soltanto sue
invenzioni, un giorno gli chiese se tra di essi ve ne fosse uno in cui lui credesse veramente;
Najagneq rispose: «Sì, è uno spirito che noi chiamiamo Sila, e che non può essere spiegato con le
parole. E uno spirito molto potente, che regge l'universo, le stagioni e tutto ciò che vive sulla terra.
È così potente che quando parla all'uomo la sua voce non giunge attraverso le comuni parole, ma
attraverso le tempeste, le nevicate, i rovesci di pioggia, le burrasche del mare e tutte le forze che
l'uomo teme; oppure attraverso il sole, la calma del mare e i piccoli fanciulli innocenti che giocano
e sono ancora ignari di tutto. Quando i tempi sono felici, Sila non ha niente da dire al genere
umano: è scomparso nel nulla infinito e rimane lontano fintanto che la gente non fa cattivo uso della
vita e ha rispetto per il suo cibo quotidiano. Nessuno ha mai visto Sila. Il luogo dove risiede è così
misterioso che egli può essere con noi e, nello stesso tempo, infinitamente lontano».
E cosa dice Sila?
«Colui che abita, o che è l'anima stessa dell'universo,» rispose Najagnaq, «non può essere mai
visto: soltanto la sua voce può essere udita. Tutto quello che sappiamo è che egli ha una voce
delicata come quella di una donna, una voce tanto bella e gentile che persino i fanciulli non ne
hanno timore. E quello che dice è Sila ersinarsinivdluge, 'Non avere paura dell'universo'.»5
Queste parole venivano da uomini molto semplici, almeno secondo i nostri concetti di cultura,
sapere, grado di civiltà, eppure la loro saggezza, che proviene dal profondo del loro intimo,
corrisponde fondamentalmente a quanto abbiamo sentito e imparato dai più venerati mistici. È una
grande e universale saggezza umana, che raramente ci è dato di conoscere attraverso le normali vie
del nostro pensiero razionale.
5 Da K. Rasmussen Across Arctic America, G.P. Putnam's Sons, New York - Londra, pagg. 82-86; e da H. Osterman
The Alaskan Eskimos, as Described in the Posthumous Notes of Dr. Knud Rasmussen. Report of the Fifth Thule
Expedition, 1921-24, vol. X, n. 3, Nordisk Forlag, Copenhagen, pagg. 97-99
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 4
Nel suo articolo sullo sciamanesimo, Julian Silverman ha distinto due tipi molto differenti di
schizofrenia: una 'schizofrenia semplice' e una 'schizofrenia paranoide', ed è nella prima che
appaiono le analogie con quella che io ho definito 'la crisi dello sciamano'.
Nella schizofrenia semplice lo schema caratteristico vede l'individuo allontanarsi dagli impatti
con l'esperienza del mondo esterno. C'è come un restringersi e un ridursi dell'interesse e
dell'attenzione verso il mondo reale, che così si ritira e svanisce, e le incursioni dell'inconscio
prevalgono e sopraffanno l'individuo. Invece, nella schizofrenia paranoide, la persona rimane vigile
ed estremamente sensibile al mondo e ai suoi avvenimenti, ma interpreta tutto secondo le proiezioni
delle proprie fantasie, paure e tenori, e con un senso di trovarsi in pericolo per gli assalti esterni. In
realtà, gli assalti provengono dall'interno, ma il malato li proietta all'esterno, immaginando che tutto
il mondo stia all'erta contro di lui. Questa, afferma Silverman, non è il tipo di schizofrenia che
conduce a un genere di esperienze interiori analoghe a quelle dello sciamanesimo. «È come se lo
schizofrenico paranoide,» egli spiega, «incapace di comprendere o sopportare lo sgomento che
proviene dal suo mondo interiore, dirigesse intempestivamente la sua attenzione al mondo esterno.
In questo tipo di soluzione abortiva della crisi, il caos interiore non viene, per così dire, affrontato e
risolto, oppure non è suscettibile di essere affrontato e risolto.» La vittima di questa pazzia è,
diciamo, in fuga e allo sbando nella distesa delle proiezioni del suo inconscio.
Il tipo opposto di malato psicotico, invece, assai penoso a vedersi, è sprofondato nella fossa di
serpenti del suo abisso interiore: tutta la sua attenzione, tutto il suo essere è laggiù, impegnato in
una battaglia di vita o di morte con le terribili apparizioni di energie psicologiche scatenate. Questo
è esattamente ciò che avviene anche al potenziale sciamano nel periodo del suo viaggio visionario.
Dobbiamo domandarci, allora, in che cosa differiscano lo schizofrenico semplice e lo sciamano nel
suo stato di trance: la risposta è, semplicemente, che lo sciamano primitivo non rifiuta l'ordine
sociale e le sue forme, anzi, è proprio in virtù di esse che viene ricondotto alla sua coscienza
razionale. E quando poi è ritornato dal viaggio, questa sua esperienza personale interiore
generalmente riconferma, rinvigorisce e rafforza quelle forme sociali ereditate, in quanto la sua
personale simbologia onirica si accorda perfettamente alla simbologia della sua cultura. Tra la sua
vita interiore e quella esteriore vi è una fondamentale affinità. Nel caso, invece, di un paziente
psicotico moderno vi è un distacco reale e nessuna effettiva associazione con il sistema simbolico
della sua cultura. Il sistema simbolico riconosciuto non offre nessun aiuto al povero schizofrenico,
atterrito e completamente perso nelle invenzioni della sua stessa immaginazione, davanti alle quali
egli si sente totalmente smarrito.
Come ho già detto e come ben potete immaginare, il mio viaggio in California fu estremamente
interessante. Quando tornai a New York (tutto avveniva come se uno spirito-guida stesse
disponendo ogni cosa per me), Mortimer Ostow, un eminente psichiatra americano, mi invitò a
discutere un suo saggio che si accingeva a leggere a un congresso della Society for Adolescent
Psychiatry. Lo studio riguardava certe comuni caratteristiche che, rilevate dallo stesso Ostow,
sembravano collegare, come appartenenti allo stesso ordine, i 'meccanismi' (così li aveva definiti
Ostow) della schizofrenia, del misticismo, dell'esperienza con l'LSD e anche dell"antinomismo' dei
giovani moderni, intendendo con questo termine l'insieme di quegli atteggiamenti aggressivi e
antisociali che dominano il comportamento e le azioni di un gran numero di studenti e di assistenti
universitari dei nostri giorni. Anche questa lettura costituì per me una grande esperienza, poiché
aprì la mia mente a un altro campo molto critico verso il quale potevano indirizzarsi i miei studi sul
mito; un campo che già conoscevo personalmente nella mia qualità di professore universitario.
Imparai che quel ritirarsi dal mondo esterno per sprofondare all'interno di se stessi provocato
dall'LSD poteva essere paragonato alla schizofrenia semplice, mentre l'antinomismo della gioventù
contemporanea era paragonabile alla schizofrenia paranoica.
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 5
Il senso di minaccia proveniente da ogni angolo di quello che viene definito il 'sistema', cioè la
moderna società civile, per molti di questi giovani non è affatto una messa in scena, ma una reale
condizione dell'anima. La loro rottura è reale, e ciò che viene fatto saltare in aria e distrutto è il
simbolo reale delle loro paure interiori. Inoltre, molti giovani sono persino incapaci di comunicare,
perché per loro ogni pensiero è talmente carico di emozioni che non riescono a trovare nel
linguaggio razionale le parole che lo definiscono. Tantissimi di questi ragazzi non riescono
nemmeno a formulare una semplice frase, ma, intercalando ogni parola con un vuoto 'cioè', si
riducono a usare una specie di linguaggio gestuale da sordomuto, o a dei silenzi carichi di tensione
emotiva, mentre cercano disperatamente comprensione e approvazione. Spesso, trattando con loro,
si ha l'impressione di trovarsi in un manicomio senza mura; e la cura indicata per i mali di cui a
gran voce si lamentano non sta affatto nella sociologia (come pretendono i giornali, televisione e
molti politicanti), ma nella psichiatria.
Il fenomeno dell'LSD, d'altro canto, è, almeno per me, più interessante. Si tratta di una
schizofrenia raggiunta intenzionalmente nella speranza di ottenere una specie di liberazione
spontanea, che però non sempre si verifica. Anche lo yoga è una schizofrenia intenzionale: uno si
distacca dal mondo, si tuffa nell'interiorità... e infatti la gamma delle visioni sperimentate in questo
modo è la stessa di quelle di una psicosi. Ma allora, qual è la differenza? Che cosa distingue lo
psicotico da chi fa uso di LSD, da chi pratica lo yoga, da un mistico? Indubbiamente si tratta sempre
della stessa esperienza d'immersione nel profondo mare interiore. Le immagini simboliche che si
incontrano sono, in molti casi, identiche (tra poco svilupperò ulteriormente questo punto). Ma esiste
una differenza fondamentale; volendo spiegarla con parole semplici, possiamo dire che è simile a
quella che passa tra un tuffatore in grado di nuotare e uno che non ne è capace. Il mistico, che
possiede delle doti naturali per questo genere di cose e che segue, passo dopo passo, le istruzioni del
suo maestro, entra nell'acqua e scopre di riuscire a nuotare; invece lo schizofrenico, impreparato,
non guidato e senza doti innate, è caduto o si è lasciato intenzionalmente cadere nell'acqua, e ora sta
annegando. Può essere salvato? Se gli viene lanciata una corda, saprà afferrarla?
Dapprima è opportuno capire in che acque è sprofondato: sono le stesse, abbiamo detto,
dell'esperienza mistica. Qual è, dunque, la loro natura? Quali sono le loro caratteristiche? E che
cosa occorre per nuotare? Sono le acque degli archetipi universali della mitologia.
Per tutta la mia vita, come studioso di mitologia, ho lavorato con questi archetipi e posso
assicurarvi che esistono veramente e sono gli stessi in tutto il mondo. Essi vengono rappresentati in
modi diversi nelle varie tradizioni, a seconda che ci si trovi, per esempio, in un tempio buddista, in
una cattedrale medioevale, in uno ziggurat sumerico, o in una piramide maya. Le immagini delle
divinità variano naturalmente nelle diverse parti del mondo in base alla flora, alla fauna, alla
posizione geografica, alle caratteristiche razziali; i miti e i riti vengono interpretati in modo
differente, o hanno differenti funzioni razionali, e differenti sono anche i costumi sociali che
attribuiscono loro maggior valore e fona. E tuttavia le forme archetipiche essenziali e le idee che
dietro a queste si celano sono spesso sorprendentemente le stesse. Dunque, che cosa sono questi
archetipi? Che cosa rappresentano?
Lo psicologo che meglio di chiunque altro ha trattato questo tema, riuscendo a dare degli
archetipi la descrizione e l'interpretazione più approfondita, è sicuramente Carl Gustav Jung, che li
definisce 'archetipi dell'inconscio collettivo', appartenenti cioè a quelle strutture della psiche che
non sono il prodotto della semplice esperienza individuale, ma sono comuni a tutto il genere umano.
Secondo la sua visione, lo strato più profondo della psiche è un'espressione del sistema istintivo
della nostra specie, che ha le sue radici nel corpo umano, nel sistema nervoso e nel nostro
meraviglioso cervello.
Tutti gli animali agiscono istintivamente. Agiscono anche, va da sé, secondo modi che essi
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 6
devono apprendere, in relazione alle circostanze e secondo la 'natura' di ogni specie. Osserviamo un
gatto che entra in una stanza e poi, per esempio, un cane: entrambi sono mossi da impulsi propri
della loro razza, gli stessi impulsi che modellano la loro vita. Anche l'uomo è diretto e governato in
modo simile. Egli possiede una biologia che ha ereditato e una biografia personale: gli 'archetipi
dell'inconscio' sono espressione della prima. Jung li distingue dai ricordi personali repressi, ricordi
di frustrazioni, paure infantili, shock (ai quali peraltro la scuola freudiana presta tanta attenzione),
che invece definisce 'inconscio personale'. Così come il primo ordine è biologico e comune alla
specie, il secondo è biografico, determinato in senso sociale e specifico per ogni vita separata. Molti
dei nostri sogni e delle difficoltà che incontriamo ogni giorno derivano, naturalmente, da questo
secondo ordine; ma in una crisi schizofrenica l'individuo si inabissa nel 'collettivo', e il mondo
d'immagini che sperimenta qui appartiene largamente all'ordine degli archetipi del mito.
Ora, per quanto riguarda il potere dell'istinto, ricordo di avere visto, in uno di quegli splendidi
documentari di Walt Disney sulla natura, una tartaruga marina che deponeva le uova nella sabbia, a
circa una decina di metri dalla riva; alcuni giorni dopo, ecco spuntare dalla sabbia una miriade di
tartarughine appena nate, grandi come una monetina, che senza un attimo di esitazione si dirigevano
tutte verso il mare. Senza perlustrare i dintorni, senza andare per tentativi, senza dubbi del tipo:
«Qual è per me il posto migliore dove dirigermi subito?» Non una sola di quelle piccole creature
sbagliò strada, finendo in mezzo ai cespugli, per esempio, con un «Oh!» di sorpresa, o tornando
indietro pensando «Sono stata creata certamente per qualcosa di meglio di questo!» Niente affatto!
Tutte quante si diressero esattamente là dove la madre sapeva si sarebbero dirette: la madre
tartaruga, cioè, o Madre Natura. Nel frattempo, uno stormo di gabbiani, che si erano comunicati
l'avvenimento con alte strida, calò di colpo, come bombardieri in picchiata, su queste piccole
creature dirette verso l'acqua. Le tartarughe sapevano perfettamente che era là che dovevano andare,
e vi si affrettavano alla massima velocità consentita loro dalle corte zampette: zampe che
conoscevano perfettamente la loro funzione! Non era stato necessario nessun allenamento e nessuna
prova. Le loro zampe sapevano quello che dovevano fare, così come i loro minuscoli occhi
sapevano quale direzione seguire. L'intero sistema stava funzionando in modo perfetto: la divisione
di piccoli carri armati si avvicinava, goffamente ma il più in fretta possibile, al mare; e poi...
Ebbene, uno avrebbe potuto pensare che per tali minuscole creaturine le grandi e possenti onde del
mare potessero rappresentare qualcosa di minaccioso. Neanche per sogno! Le tartarughine si
buttarono dritte in acqua, e già sapevano nuotare! Naturalmente, appena entrate, furono subito
attaccate dai pesci. La vita è proprio dura!
A proposito, quando la gente dice di volere tornare alla natura, si rende davvero conto di ciò
che questo significa?
Ecco un altro significativo esempio dell'infallibile legge dell'istinto, offerto ancora una volta da
piccoli esseri: una nidiata di pulcini appena usciti dal guscio. Se un falco vola sopra il loro recinto, i
pulcini corrono a cercare un rifugio, ma se si tratta di un piccione non si spostano. Dove avranno
imparato a capire la differenza? Chi, o che cosa, ci domandiamo, determina le loro decisioni? I
ricercatori hanno costruito delle sagome di legno a forma di falco, e le hanno trascinate attraverso il
recinto per mezzo di un filo metallico: tutti i pulcini si sono subito messi a cercare un riparo. Ma se
quelle stesse sagome venivano fatte muovere all'indietro nessun pulcino si turbava.
La prontezza a rispondere a specifici impulsi stimolatori e i risultanti schemi di azione
appropriata sono, in tutti questi casi, insiti nella fisiologia della specie. Conosciuti come
'meccanismi innati di induzione' fanno parte del sistema nervoso centrale e sono presenti anche
nella struttura fisica della specie Homo sapiens.
È questo, dunque, ciò che s'intende per istinto. Ma se avete bisogno di qualche ulteriore
dimostrazione, o avete ancora dei dubbi sulla forza e la saggezza con cui il puro istinto guida gli
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 7
animali, potete andare a vedere su un libro di biologia, i cicli vitali dei parassiti. Leggete, per
esempio, il comportamento del virus dell'idrofobia, e vi domanderete se un essere umano sarà mai
capace di stare alla pari con un simile prodigio. Esso sa perfettamente che cosa fare, dove andare e
ciò che deve attaccare nel sistema nervoso umano; sa come trasformare colui che ci hanno
insegnato essere la creazione più perfetta della mano di Dio in un misero schiavo, il cui solo
impulso è di mordere, per trasmettere così alla vittima successiva il virus, che attraverso la
circolazione sanguigna risalirà alle ghiandole salivari per continuare all'infinito il suo ciclo.
In ogni essere umano è presente un sistema istintivo senza il quale non potremmo nemmeno
nascere; ma ognuno di noi è stato anche educato in uno specifico sistema culturale. Il paradosso
dell'uomo, ciò che lo distingue da tutti gli altri animali del creato, è di nascere con dodici anni di
anticipo. Nessuna madre, certo, vorrebbe che le cose andassero diversamente; ma è così, e questo è
il nostro problema. Il neonato non ha l'intelligenza di una tartarughina appena nata, grande come
una monetina, e nemmeno quella di un pulcino che, appena uscito dall'uovo, ha ancora qualche
frammento di guscio sulla coda. Assolutamente incapace di provvedere a se stesso, l'infante Homo
sapiens deve affidarsi per dodici anni ai genitori o a qualcuno che li sostituisce; ed è proprio durante
questi dodici anni di dipendenza che diventiamo esseri umani. Impariamo a camminare, a parlare, a
pensare, a riflettere secondo la terminologia della cultura in cui viviamo. Ci viene insegnato a
rispondere a certi segnali positivamente, ad altri negativamente o con paura; e molti di essi non
appartengono all'ordine naturale, bensì a quello sociale: sono cioè segnali specifici, propri di una
particolare civiltà. Tuttavia, gli impulsi che essi attivano o controllano sono impulsi naturali,
biologici, istintivi. Ogni mitologia, quindi, è un'organizzazione di segnali di reazione condizionati
culturalmente, dove le tensioni, naturali e culturali, sono così intimamente fuse tra loro che in
moltissimi casi è praticamente impossibile distinguerle. Questi segnali stimolano i meccanismi
innati di induzione del sistema nervoso umano così come i segnali della natura attivano i riflessi
spontanei in un animale.
Ho definito un simbolo mitologico operante come un 'segnale-guida stimolatore di energia' e
J.W. Perry ha definito questi segnali 'immagini-urto': i loro messaggi non sono indirizzati al
cervello, per esservi interpretati e poi trasmessi, ma sono rivolti direttamente ai nervi, alle
ghiandole, al sangue e al sistema nervoso simpatico. Tuttavia, i segnali passano attraverso il
cervello, e il cervello, istruito, può interferire, interpretarli male, e così mandare in corto circuito i
messaggi stessi. Quando questo avviene, i segnali non funzionano più come dovrebbero: i simboli
mitologici ereditati si alterano e il loro valore di guida viene perso o frainteso. Oppure, e questo è
peggio, un individuo può essere stato educato a rispondere a un particolare complesso di segnali
proprio di un gruppo ristretto: è il caso, per esempio, dei bambini cresciuti in cene sette che non
partecipano, o addirittura si mostrano insofferenti, alle forme culturali del resto della società. Una
persona simile non potrà mai sentirsi a proprio agio in un ambiente sociale più vasto, ma avrà
sempre dei problemi e forse diventerà un po' paranoide. Niente lo tocca, o ha per lui significato, o lo
stimola come invece avviene negli altri. Così è costretto a ritirarsi, per cercare delle soddisfazioni,
nel contesto limitato e limitante della setta, della famiglia, della comunità o della riserva con la
quale è stato 'sintonizzato'. Inserito in un contesto più vasto, è completamente disorientato, e anche
pericoloso.
Mi sembra che qui sia messo in luce un problema critico che genitori e famiglie si trovano a
dover fronteggiare direttamente: quello, cioè, di assicurarsi che l'imprinting che stanno dando ai
loro figli sia tale da porli in sintonia, e non da alienarli, con il mondo nel quale si accingono a
vivere. A meno che, naturalmente, non si sia deciso di trasmettere agli eredi la propria paranoia. Più
normalmente, i genitori razionali sperano di aver messo al mondo dei figli sani, sia in senso fisico
sia sociale, sufficientemente in sintonia con il modo di sentire e di pensare della cultura nella quale
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 8
stanno crescendo, affinché possano essere in grado di apprezzarne i valori, e di allinearsi
costruttivamente con quegli elementi innovatori, giusti, vitali e fecondi che ne sono parte.
Dunque esiste, come dicevo, questo problema, così critico e così importante per noi tutti, di fare
in modo che la mitologia (la costellazione dei segni-simbolo, delle immagini-urto, dei segnali-guida
stimolatori d'energia) che noi trasmettiamo ai nostri giovani possa inviare loro dei messaggi atti a
metterli in un rapporto ricco e vitale con l'ambiente che sarà il loro per tutta la vita, e non con
qualche periodo passato, con un futuro religiosamente vagheggiato o, ancora peggio, con qualche
setta querula e bizzarra, o con qualche moda passeggera. E un problema che io definisco critico
perché, quando lo si risolve malamente, il risultato per l'individuo che ha ricevuto un'educazione
sbagliata è quello conosciuto in termini mitologici come Terra desolata: il mondo non gli parla e lui
non parla al mondo. In questo caso si determina una scissione: l'individuo è respinto su se stesso e si
ritrova nella condizione primaria di quella scissione psicotica che lo farà diventare o uno
schizofrenico semplice, rinchiuso in una cella con le pareti imbottite, o un paranoide che urla frasi
incoerenti in qualche manicomio senza mura.
Ma prima di proseguire il discorso sul corso generale o sulla storia di questa dissociazione, di
questa specie di viaggio (chiamiamolo così) di discesa e di ritorno, vorrei soffermarmi sulle
funzioni normalmente offerte da una mitologia che operi in modo giusto. A mio giudizio queste
funzioni sono quattro.
La prima è ciò che io ho chiamato 'funzione mistica': cioè risvegliare e mantenere nell'individuo
un senso di riverente timore e di gratitudine nei confronti del mistero dell'universo; non perché egli
viva nel timore di questa immensità, ma perché si renda conto di parteciparvi, essendo il mistero
dell'esistenza anche il mistero del suo essere interiore più profondo. E questo ciò che il vecchio
sciamano dell'Alaska udì quando Sila, lo spirito dell'universo, gli disse «Non aver paura». Infatti la
natura, così com'è percepita dai nostri occhi temporali, è brutale, come abbiamo visto. È terribile,
terrificante, mostruosa. È qualcosa di 'assurdo' per le menti razionali dei filosofi esistenzialisti
francesi. (La cosa davvero stupefacente dei francesi è che essi sono stati indelebilmente 'plasmati'
da Descartes: così tutto ciò che non può essere analizzato secondo le coordinate cartesiane per loro
dev'essere catalogato come 'assurdo'. Ma chi, o che cosa è assurdo, potremmo chiedere, quando
giudizi di questo tipo vengono espressi come una filosofia?) La seconda funzione di una mitologia
viva e vitale è quella di offrire un'immagine dell'universo che sia in accordo con la conoscenza del
proprio tempo, con la scienza e il campo d'azione delle persone alle quali questa mitologia è rivolta.
Ai nostri giorni, naturalmente, le rappresentazioni del mondo di tutte le più grandi religioni sono
vecchie di almeno duemila anni, e già solo per questo fatto ci sono ragioni sufficienti per
determinare una scissione piuttosto grave. Se in un periodo come il nostro, di grande fermento e
ricerca religiosa, ci si chiede perché le chiese stiano perdendo i loro fedeli, gran parte della risposta
sta proprio qui. Esse infatti invitano il gregge a 'pascolare' e a trovare la pace in un terreno che non è
mai esistito, ma non esisterà mai e che in ogni caso non si può trovare oggi in nessun angolo della
terra. Una simile offerta mitologica è un farmaco sicuro per condurre almeno a una leggera
condizione di schizofrenia.
La terza funzione di una mitologia vitale è quella di rendere valide, sostenere e fissare le norme
di un dato e specifico ordine morale, quello, cioè, della società in cui l'individuo deve vivere. E la
quarta funzione è quella di guidarlo, passo dopo passo, con forza, salute e armonia di spirito,
attraverso tutto il prevedibile corso di una vita utile.
Riguardiamo brevemente le fasi di questi vari stadi.
Il primo stadio, naturalmente, è quello del bambino che dipende, durante i suoi primi dodici
anni di vita, sia fisicamente sia psicologicamente, dalla guida e dalla protezione della sua famiglia.
L'analogia biologica più evidente è con i marsupiali: canguri e opossum. Il feto di questi mammiferi
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 9
aplacentali non può rimanere nell'utero dopo che la provvista di cibo dell'uovo (il tuorlo) è stata
assorbita, e quindi i piccoli devono nascere molto tempo prima che siano in grado di vivere per
conto loro. Il piccolo canguro nasce dopo solo tre settimane di gestazione: le sue zampe anteriori
sono già molto forti e sanno bene che cosa devono fare. La minuscola creatura (ancora una volta per
istinto!) si arrampica lungo la pancia della madre fino a raggiungere il marsupio, dentro cui si
sistema attaccandosi a un capezzolo che si gonfia (istintivamente) nella sua bocca in modo che il
piccolo non lo perda, e rimane in questo secondo utero (un vero e proprio 'utero con vista') fino a
quando non sarà pronto a saltar fuori.
Tornando alla nostra specie, una funzione esattamente simile viene svolta dalla mitologia, che è
un organo biologico non meno indispensabile e un prodotto non meno naturale del marsupio. Come
il nido di un uccello, così la mitologia è formata da materiali diversi presi dall'ambiente locale,
apparentemente in modo cosciente, ma secondo un'architettura dettata dall'inconscio. E non ha
proprio importanza se le sue immagini confortanti, direttrici e informatrici sono adatte a un adulto:
essa non è intesa per gli adulti, la sua funzione principale essendo di portare alla maturità una psiche
esitante, così che possa fronteggiare il mondo. La giusta domanda da porsi, quindi, è se questa
mitologia sappia preparare un individuo a vivere in questo mondo così com'è, oppure solo in
qualche paradiso o in una società immaginaria. La funzione seguente, di conseguenza, dev'essere
quella di aiutare il giovane, che ora è pronto ad avventurarsi fuori, ad allontanarsi dal mito, il
secondo grembo materno, a diventare, come dicono in Oriente «nato due volte», cioè un adulto
capace, che agisce razionalmente nel suo mondo e che ha lasciato dietro di sé la stagione della sua
infanzia.
Ma c'è ancora una critica decisa che sento di dover muovere alle nostre istituzioni religiose.
Esse infatti chiedono e si aspettano che un individuo non abbandoni quel grembo materno che esse
forniscono; è come se a un piccolo canguro si chiedesse di rimanere nel marsupio della madre per
sempre. Tutti noi sappiamo che cosa accadde nel XVI secolo: l'intero grembo di Madre Chiesa andò
in pezzi, e nonostante tutti gli sforzi e i tentativi compiuti per ricomporre l'unità della Chiesa, non è
stato più possibile ricostituirlo. Così ora è distrutto. Al suo posto abbiamo 'il leggere, lo scrivere, il
far di conto', una specie di marsupio artificiale di plastica; e se poi vogliamo arrivare fino al
dottorato di ricerca, possiamo stare nell'incubatrice scolastica fino a quarantacinque anni. Ho notato
(e forse anche voi) che quando vengono intervistati alla televisione dei professori, prima di dare una
risposta chiara si interrompono continuamente fra mille smorfie, tanto che mi chiedo se stiano
attraversando qualche crisi interiore o gli manchino solo le parole per dare forma a qualche pensiero
particolarmente profondo. Invece, quando vengono poste a un giocatore professionista, di football o
di rugby, delle domande anche piuttosto complicate, egli risponde con facilità e in modo pertinente.
Infatti, questi ha lasciato il grembo materno a circa diciannove anni, quando era il miglior giocatore
tra i suoi compagni; l'altro, poveretto, è rimasto sotto quella specie di cappa soffocante dei suoi
professori fino alla mezza età, e sebbene ora abbia raggiunto il suo dottorato, è oramai troppo tardi
per cominciare a sviluppare ciò che un tempo si chiamava 'sicurezza in se stessi'. Egli porterà per
sempre nei suoi meccanismi innati di induzione l'impronta di quella cappa e rimarrà nel timore
costante che qualcuno dia un brutto voto alle sue risposte.
Succede sempre così: non appena avete imparato a svolgere una determinata professione e vi
siete guadagnati un posto in questa nostra società, incominciate a sentire gli acciacchi dell'età; si
avvicina il momento di andare in pensione che arriva, inevitabilmente, con una rapidità incredibile.
Ora avete tra le mani una psiche libera e utilizzabile: la vostra, un fardello di quell'energia che Jung
definì 'libido disponibile'. Che cosa farne? È la tipica fase, che spesso caratterizza l'ultima parte
della mezza età, degli esaurimenti nervosi, delle crisi di alcolismo e così via, quando la luce della
vostra vita è discesa, impreparata, in un inconscio, impreparato, e voi vi sentite annegare. Sarebbe
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stato molto meglio se, da piccoli, aveste ricevuto un solido imprinting dai miti dell'infanzia, in
modo che, giunto il momento di questo tuffo all'indietro, di questa immersione nel profondo, lo
scenario, laggiù, potesse apparire un po' più famigliare. Almeno, sapreste dare un nome a qualcuno
dei mostri che incontrerete e, forse, avreste anche delle anni per difendervi. E un dato di fatto assai
importante: le immagini mitologiche che nell'infanzia sono interpretate come riferimenti a elementi
esterni soprannaturali, in realtà sono i simboli dei poteri strutturanti dell'inconscio (o 'archetipi',
come li chiamò Jung). E sarà proprio a questi poteri e alle forze naturali che essi rappresentano, le
forze e le voci interiori dello spirito (Sila) dell'universo, ai quali tornerete quando dovrete
affrontare, ineluttabilmente, quell'immersione nell'inconscio.
Dunque, di fronte a questa sfida, che ci attende tutti, dobbiamo cercare di imparare a conoscere
qualcuna delle correnti e delle maree del nostro oceano interiore. Vorrei parlarvi di ciò che ho
appreso recentemente a proposito delle esperienze, sconvolgenti, che un individuo attraversa in una
crisi schizofrenica.
La prima esperienza è quella di un senso di scissione. La persona vede il mondo spaccarsi in
due: una parte si allontana e lui si trova sull'altra. Questo è l'inizio della regressione, un movimento
di rottura e caduta all'indietro. Per un certo tempo l'individuo può vedersi in due ruoli: uno è quello
del pagliaccio, del fantasma, della strega, del matto, dell'escluso; sta recitando una parte 'esterna', in
cui si sminuisce indossando gli abiti del buffone vilipeso da tutti, della vittima. Ma dentro di sé egli
è il salvatore, e lo sa: è l'eroe scelto dalla sorte. Recentemente, un simile salvatore mi fece l'onore di
alcune visite; era un giovane alto, molto bello, con la barba, gli occhi e i modi gentili di un Cristo, e
il suo sacramento era l'LSD. L'LSD e il sesso. «Ho visto il Padre,» mi disse la seconda volta che
veniva da me. «Ora è vecchio e mi ha raccomandato di aspettare. Saprò quando sarà giunto per me
il momento di sostituirlo.»
La seconda esperienza è stata descritta in molti rapporti clinici: è quella di un terrificante
distacco, una regressione, nel tempo ma anche biologica. Ricadendo nel proprio passato lo psicotico
diventa un infante, un feto nel ventre materno. Egli prova la spaventosa esperienza di scivolare
all'indietro verso una coscienza animale, in forme animali, sub-animali, persino vegetali. Mi viene
in mente la leggenda di Dafne, la ninfa tramutata in una pianta di alloro; questa immagine, in
termini psicologici, ha il significato di una psicosi. Concupita dal dio Apollo, la vergine ne fu
terrorizzata e invocò in aiuto il padre, il dio-fiume Peneo, che la tramutò in una pianta.
«Mostrami il volto che avevi prima che tuo padre e tua madre nascessero!» È un tema frequente
nella meditazione e nella filosofia zen dei maestri giapponesi. Nel corso di una regressione
schizofrenica, anche lo psicotico può giungere a conoscere l'estasi di un'unione con l'universo che
trascende ogni limite personale: Freud la definì 'sensazione oceanica'. Nascono allora anche
sensazioni di una nuova conoscenza; cose che fino a quel momento erano rimaste avvolte nel
mistero risultano perfettamente chiare e vengono sperimentate nuove, ineffabili percezioni. Quando
ne leggiamo il resoconto non possiamo che esserne completamente stupiti; io ne ho letti dozzine e
corrispondono, spesso in modo incredibile, alle intuizioni dei mistici, alle immagini della mitologia
induista, buddista, egizia e classica.
Per esempio, una persona che non ha mai creduto alla reincarnazione, e nemmeno ne ha mai
sentito parlare, incomincia a credere di essere vissuto da sempre, di essere passato attraverso molte
vite, e tuttavia di non essere mai nato e di non essere destinato a morire. E come se fosse giunto a
conoscere se stesso come quel Sé (atman) di cui leggiamo nel Bhagavad Gita: «Mai esso è nato,
mai esso morirà (...) Non nato, eterno, permanente e primordiale, non ha fine quando ha fine il
corpo». Il paziente (chiamiamolo così, ora) ha unito ciò che gli resta della sua coscienza a quella di
tutte le cose, le rocce, gli alberi, l'intero mondo della natura dal quale tutti noi abbiamo tratto
origine. Egli è in sintonia con ciò che esiste da sempre: come lo siamo, in realtà, tutti, all'inizio e
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alla fine. Viene affermato nel Gita: «Quando uno distoglie completamente i sensi dagli oggetti cui
essi si rivolgono, come una testuggine ritrae le proprie membra, allora, in quel momento, la sua
saggezza viene fissata saldamente. In quella serenità si trova la sospensione di ogni dolore».
In breve, cari amici, sto dicendo che il nostro paziente schizofrenico, in realtà, sta
sperimentando al di fuori della sua volontà quel profondo, beato oceano che sia lo yogi, sia il santo
cercano sempre di raggiungere; un oceano in cui essi nuotano, mentre lo schizofrenico vi annega.
Stando a numerosi rapporti medici, può sopravvenire poi una fase in cui il malato prova la
sensazione di avere davanti a sé un compito terrificante, con pericoli da affrontare e da superare; e
ha anche la percezione di presenze invisibili che lo possono aiutare e guidare attraverso i pericoli.
Queste presenze sono gli dei, gli angeli (o i demoni) custodi: poteri innati della psiche, capaci di
affrontare e superare le forze negative che torturano, divorano e fanno a pezzi. Chi ha il coraggio di
continuare, giungerà, in una terribile estasi, a una crisi culminante, sconvolgente, o anche a una
serie di queste crisi, al di là di quanto è possibile sopportare.
Sono crisi, per la maggior parte, di quattro tipi, in base al genere di difficoltà che ha condotto il
paziente alla regressione. Per esempio, una persona che è stata privata nell'infanzia dell'amore
indispensabile, che è cresciuta in una casa senza o con pochissimo affetto e dove esistevano solo
autorità, rigore e ordini, o che è stata allevata in mezzo alle liti e alla rabbia, fra le urla di un padre
ubriaco o in altre situazioni simili, nel suo viaggio all'indietro cercherà di trovare nell'amore un
nuovo orientamento e un nuovo cardine per la sua vita. Di conseguenza, quando sarà tornato
all'inizio della sua biografia, alla sensazione del primo impulso erotico alla vita, il compimento
della sua crisi sarà la scoperta, nel suo stesso cuore, di un centro di tenerezza e di amore nel quale,
finalmente, riposare. Sarà stato questo lo scopo e il senso di tutta la sua ricerca retrospettiva, la cui
realizzazione sarà configurata attraverso l'esperienza di una specie di appagamento mistico: una
'sacra unione' con una presenza che funge da moglie-madre (o semplicemente da madre).
Se invece la persona è cresciuta in una casa in cui il padre era una nullità, una presenza di
nessun valore; in una casa dov'è quindi mancato il senso dell'autorità paterna e di una presenza
maschile da onorare e rispettare, in mezzo alla confusione e al disordine delle minuzie domestiche e
delle preoccupazioni femminili, allora la ricerca sarà orientata verso l'immagine di un padre
adeguato. Quella persona cercherà di trovare una specie di realizzazione simbolica di un rapporto
superiore padre-figlia o padre-figlio.
Un terzo tipo di situazione famigliare da cui deriva un defraudamento affettivo è quella del
bambino che sente di essere stato escluso dal cerchio famigliare, di non essere desiderato; oppure di
un bambino che non ha mai avuto una vera famiglia. Nel caso di un secondo matrimonio, per
esempio, quando si forma una nuova famiglia, il bambino nato dalla prima unione può sentirsi, e
trovarsi, realmente respinto, messo da parte o abbandonato. La vecchia favola della perfida
matrigna e delle cattive sorellastre in questo caso è del tutto pertinente. Lo scopo che una persona
così tenterà di ottenere nel suo solitario viaggio interiore sarà di ritrovare, o ricrearsi, un centro
(inteso non più come centro della famiglia, ma del mondo) di cui lui costituirà l'esistenza cardine.
J.W. Perry mi raccontò di un paziente schizofrenico così completamente e profondamente
dissociato che nessuno riusciva a stabilire con lui la minima comunicazione. Un giorno, questo
povero essere incapace di comunicare disegnò, in presenza del dottore, un cerchio e mise la punta
della matita nel centro. Il medico si chinò sul disegno e disse: «Tu sei nel centro, non è vero? È
così!» Quel messaggio penetrò nel paziente e diede inizio alla fase di ritorno.
C'è una descrizione interessantissima di una crisi schizofrenica nel penultimo capitolo del libro
di Ronald David Laing La politica dell'esperienza6. Si tratta del racconto fatto da un ex comandante
6 R.D. Laing The Politics of Experience, Pantheon Books, New York, cap. 7 (trad. it. La politica dell'esperienza,
Feltrinelli, Milano)
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di marina, diventato poi scultore, di una sua personale crisi schizofrenica (nella nostra tipologia, la
quarta), al culmine della quale egli dovette affrontare e sopportare la percezione di una luce
purissima, terribilmente pericolosa, sconvolgente e schiacciante. Il suo racconto ricorda con molta
forza la luce del Budda descritta nel Libro tibetano dei morti, una luce che si suppone sperimentata
nel momento stesso della morte: se si riesce a sostenerla essa genera liberazione, ma per la maggior
parte degli uomini la sua intensità è insopportabile. L'ex ufficiale della Marina britannica, un certo
Jesse Watkins, di trentotto anni, era totalmente digiuno di filosofia e mitologia orientali; tuttavia, al
culmine dell'esperienza, le immagini di questo viaggio protrattosi per dieci giorni, divennero
perfettamente simili a quelle delle religioni induista e buddista.
Tutto era cominciato per lui con la sensazione, allarmante, del tempo che scorreva all'indietro.
Si trovava a casa sua in salotto e ascoltava, senza prestarvi molta attenzione, una canzone alla radio,
quando iniziò ad avere questa esperienza straordinaria. Si alzò, si guardò allo specchio per cercare
di capire che cosa stava succedendo, e sebbene il volto che vide riflesso gli sembrasse vagamente
familiare, gli apparve però come quello di un estraneo, non il suo. Ricoverato in osservazione in
ospedale, fu messo a letto. Quella notte gli sembrò di essere morto, e che fossero morti anche tutti
gli altri pazienti intorno a lui. Continuò a retrocedere nel tempo fino a raggiungere una sorta di
paesaggio animale, dove lui si aggirava come una bestia; anzi, come un rinoceronte, spaventato e
tuttavia aggressivo e guardingo. Poi provò la sensazione di essere un bimbo molto piccolo, e si sentì
piangere, proprio come un bambino. Era, contemporaneamente, l'osservatore e l'oggetto osservato.
Quando gli diedero dei giornali da leggere non riuscì a farlo, perché tutto, ogni singola riga, gli
spalancava davanti associazioni sempre più ampie. Una lettera della moglie gli fece provare la
sensazione che lei fosse in un mondo differente, nel quale lui non avrebbe mai più abitato. E sentì
che, lì nel suo mondo, aveva ottenuto dei poteri, poteri innati in tutti noi. Per esempio, riuscì in un
solo giorno a fare cicatrizzare un brutto taglio sul dito, che non aveva permesso agli infermieri di
curargli, concentrando, come disse, «una specie d'intensa attenzione su di esso». Scoprì che, seduto
a letto, guardando fissamente gli altri pazienti ricoverati nel suo stesso reparto, poteva farli sdraiare
e farli rimanere immobili.
Sentì di essere più di quanto avesse mai immaginato; sentì di essere sempre esistito, in ogni
forma di vita, e di stare sperimentando tutto questo ancora una volta; ma sentì anche di avere
davanti a sé un grande e terribile viaggio da compiere, e questo gli dava una sensazione di profonda
paura.
Ora, i grandi e nuovi poteri che egli stava sperimentando, di controllo sul proprio corpo e su
quello degli altri, in India sono chiamati siddhi. Lì vengono riconosciuti (e lo stesso fece
quest'uomo occidentale) come poteri latenti in tutti noi, insiti in ogni vita, e che lo yogi è in grado di
liberare in se stesso. Ne sentiamo parlare anche nello scientismo, così come in certi tipi di
'guarigione per fede' che invocano la salute per i fedeli. I miracoli degli sciamani, dei santi, dei
salvatori sono altrettanti esempi noti. Per quanto riguarda, poi, l'esperienza di identità con l'esistente
e con la vita in tutte le sue forme, e le trasformazioni in forme animali, possiamo prendere in
considerazione il seguente canto del leggendario poeta Amairgen, capo di quei Celti gaelici la cui
nave toccò per prima le sponde dell'Irlanda:
Io sono il vento che soffia sul mare;
Io sono l'onda del profondo oceano;
Io sono il toro delle sette battaglie;
Io sono l'aquila sulla roccia;
Io sono una lacrima del sole;
Io sono la pianta più bella;
Io sono un cinghiale coraggioso;
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 13
Io sono un salmone nell'acqua;
Io sono un lago nella pianura;
Io sono la voce della conoscenza;
Io sono la punta della lancia in battaglia;
Io sono il dio che crea il fuoco [pensiero) nella mente.
Mentre seguiamo con l'immaginazione il corso di questo viaggio interiore durato dieci giorni, ci
troviamo su un piano mitico ben noto, per quanto strano e mutevole. Anche i suoi passaggi
culminanti, sebbene inconsueti, sono curiosamente e misteriosamente familiari.
Il protagonista racconta di avere provato l'«acuta sensazione» che il mondo che stava ora
sperimentando fosse situato su tre piani: lui si trovava nella sfera di mezzo, sopra si apriva un piano
di più alte realizzazioni, sotto era una specie di sala d'aspetto. Torna alla mente l'immagine cosmica
della Bibbia: il paradiso e Dio in alto, la terra in basso e sotto di essa le acque. Oppure possiamo
pensare alla Divina Commedia di Dante, ai templi torreggiami dell'India o a quelli maya del Centro
America, agli ziggurat degli antichi Sumeri: al di sotto si apre l'inferno dei sofferenti, al di sopra il
Cielo della luce e tra i due si alza la montagna delle anime che ascendono al cielo nei differenti
stadi del progresso spirituale. Secondo Jesse Watkins, la maggior parte di noi si trova sul gradino
inferiore, in attesa (en attendant Godot, potremmo dire), proprio come in una grande sala d'aspetto;
non siamo ancora giunti nella zona centrale di lotta e di ricerca alla quale, invece, lui era riuscito ad
arrivare. Tutt'intorno, accanto e sopra di lui, aveva la sensazione che ci fossero degli dei invisibili,
cui era affidato l'ordine e il comando di tutte le cose; e nel punto più alto, con il ruolo più
importante, si trovava il dio supremo.
Ciò che rendeva la situazione terribile, inoltre, era sapere che tutti, alla fine, avrebbero dovuto
assumere quel ruolo dominante. Anche i pazienti intorno a lui, lì nel manicomio, erano morti e si
trovavano nella fase espiatoria di mezzo, cioè «in una sorta di risveglio» (ricordiamoci che il
significato della parola budda è 'colui che si è risvegliato'). E tutti erano sul punto, risvegliandosi, di
occupare, ognuno nel proprio momento, quella posizione suprema nella quale diventavano Dio. Dio
era un pazzo. Su di lui gravava tutto il peso: «questo enorme peso,» così si espresse Watkins, «di
dover essere presente e consapevole, di dover reggere e governare ogni cosa». «Il viaggio è lì, e
ogni singolo individuo tra noi,» disse, «deve affrontarlo e completarlo: non si può sfuggire; lo scopo
di ogni cosa e di tutta l'esistenza è quello di prepararsi a compiere un passo avanti, poi un altro e un
altro ancora, e così via...»
Non è forse sorprendente trovare tanti temi orientali in questa specie di giornale di bordo del
viaggio sul mare della notte compiuto da un ex ufficiale di guerra della Marina britannica,
impazzito per un breve periodo?
Un antico racconto buddista parla proprio della fine di un simile viaggio; lo si trova in un libro
di favole induiste chiamato Panchatantra. Ha per titolo I quattro cercatori d'oro e narra di quattro
bramini amici che, avendo perso le loro ricchezze, decisero di mettersi in cammino insieme per
cercar fortuna. Giunti nella regione di Avanti (quella in cui un tempo visse e insegnò il Budda),
incontrarono un mago chiamato Terrore-Gioia. Dopo che gli ebbero raccontato quello che volevano
e implorato il suo aiuto, questo personaggio solenne e imponente diede a ciascuno una magica
penna d'oca e disse loro di andare a nord, verso le pendici settentrionali dell'Himalaia: là dove una
delle penne fosse caduta, li assicurò, il suo possessore avrebbe trovato il tesoro.
Ebbene, la penne del capo dei quattro amici cadde per prima, e si scoprì che il terreno, in quel
luogo, era tutto di rame. «Guardate!» disse, «Prendetene quanto ne volete!» Ma gli altri preferirono
continuare e così il capo, rimasto solo, raccolse il suo rame e tornò indietro. Poi cadde la penna del
secondo, e lì si trovò dell'argento: il suo possessore prese la via del ritorno. La penna del terzo
rivelò dell'oro. «Hai capito?» disse il quarto del gruppo, «Prima abbiamo trovato il rame, poi
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l'argento, poi l'oro. Dopo questo troveremo sicuramente dei diamanti!» Ma l'altro si tenne l'oro e il
quarto decise di andare avanti.
Proseguì da solo. Il sole torrido dell'estate gli bruciava le membra e la sete lo faceva quasi
vaneggiare mentre vagava sui sentieri della terra delle fate. Alla fine, su una piattaforma girevole,
vide un uomo sulla cui testa una ruota girava vorticosamente; il sangue gli colava lungo tutto il
corpo. Gli corse incontro e disse: «Signore, perché te ne stai lì così, con quella ruota sulla testa? Ma
prima dimmi se c'è acqua da qualche parte qui intorno: sto impazzendo dalla sete».
Nell'attimo in cui il bramino pronunciò queste parole, la ruota lasciò la testa dell'uomo e si posò sulla
sua. «Mio caro signore,» esclamò allora «che cosa vuol dire tutto questo.'» E l'altro rispose: «Proprio
allo stesso modo quella ruota si posò sulla mia testa». «Ma quando se ne andrà?» chiese il bramino,
«fa molto male.» L'uomo rispose: «Quando qualcuno, con in mano una penna fatata come quella che
avevi tu, giungerà e parlerà come te; allora la ruota si sposterà sulla sua testa». Ribattè il bramino:
«Da quanto tempo sei qui?» L'altro allora chiese: «Chi regna in questo momento?» E udendo la
risposta, «Il re Vinabatsa», riprese: «Quando regnava Rama, io ero poverissimo: allora mi procurai
una penna magica e giunsi qui. Vidi un uomo con una ruota sulla testa e gli feci una domanda.
Nell'attimo in cui gliela ponevo (proprio come hai fatto tu), la ruota lasciò la sua testa e si posò sulla
mia. Ma non riesco a calcolare i secoli». Colui che ora reggeva la ruota proseguì: «Ti prego, dimmi,
come ti procuravi il cibo?» «Mio caro signore,» disse l'altro, «il dio della ricchezza, timoroso che i
suoi tesori gli venissero rubati, preparò questa cosa terribile, in m
e dalla sete e preservato dalla vecchiaia e dalla morte. Tuttavia, avrebbe dovuto sopportare questa
tortura. Ma ora permettimi di dirti addio. Mi hai liberato da una sofferenza indicibile, adesso posso
tornarmene a casa.» E se ne andò7.
La vicenda, così come l'ho riportata, è un ammonimento rivolto a tutti gli uomini contro il
pericolo di un'eccessiva avidità. Nella sua versione più antica, però, questa leggenda del buddismo
Mahayana simboleggia il lungo cammino da affrontare per diventare un bodhisattva: la domanda
posta dal bramino all'uomo che soffre sotto la ruota è il segno della totale e infinita compassione di
chi ha intrapreso quel viaggio spirituale. È opportuno, a questo proposito, ricordare la leggenda
medioevale cristiana del Santo Graal: la figura del re ferito e la domanda che il primo cavaliere del
Graal avrebbe dovuto porre per risanare il re e subentrare al suo posto. Viene anche da pensare al
capo coronato di spine del Cristo crocefisso, e a numerose altre figure: Prometeo, incatenato a una
roccia del Caucaso mentre un'aquila gli divora il fegato; Loki, anch'egli inchiodato a uno spuntone
di roccia, con il veleno infuocato del serpente cosmico che in eterno gli cola sulla testa; Satana, così
come lo vide Dante, posto come perno al centro della terra, nella posizione del suo modello, il dio
greco Ade (il Plutone dei Romani), signore degli inferi e delle ricchezze, che poi è l'esatto
equivalente di Kubera, il dio indiano della terra, signore dell'abbondanza e di quella tormentosa
ruota presente nella favola di cui vi ho parlato.
Ma per tornare alle visioni del nostro paziente schizofrenico, egli sentì che il ruolo del dio
supremo, pazzo e atrocemente sofferente, era qualcosa di troppo grande per lui. E, davvero, chi
saprebbe affrontare e accettare volontariamente l'impatto di un'esperienza che porta a scoprire il
senso vero della vita e dell'universo, nella pienezza della sua terribile gioia? Questa, forse, è la
prova suprema della nostra misericordia: essere capaci di affermare questo mondo così com'è, senza
riserve, portando dentro di noi tutte le sue terribili gioie con un senso di entusiasmo e di trasporto, e
in tal modo lasciarlo, follemente, a tutti gli esseri viventi! In ogni caso, Jesse Watkins seppe, nella
sua pazzia, di essere giunto al limite estremo per lui sopportabile.
«In certi momenti fu così sconvolgente,» disse a proposito della sua avventura, «che il pensiero
7 The Panchatantra, The University of Chicago Press, Chicago, pagg. 434-441
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di affrontare di nuovo una simile esperienza mi terrorizza (...) D'un tratto ero stato messo di fronte a
qualcosa di infinitamente più grande di me, a esperienze molteplici, a un'eccessiva intensità di
consapevolezza e a tante sensazioni al limite del tollerabile (...) Tutto questo l'ho provato solo per
pochi, brevi attimi, ma è stato come quando un improvviso lampo di luce accecante, un turbine di
vento, o qualsiasi altra cosa simile vi si scaglia contro, e voi vi sentite troppo indifesi e soli per
essere in grado di resistere.» Una mattina Watkins permise ai dottori di non dargli più sedativi, per
tornare, in qualche modo, in sé. Sedette sul bordo del letto comprimendo con fona le mani tra loro e
cominciò a ripetere il proprio nome. Continuò a ripeterlo, più e più volte, senza mai smettere, e a un
tratto, così, semplicemente, capì che tutto era passato. Ed era vero. Le incredibili esperienze erano
finite e lui era di nuovo sano di mente.
Io penso che sia proprio qui l'indicazione del metodo da seguire quando si affronta un analogo
viaggio avventuroso e si vuole trovare la strada del ritorno. Ossia: non si deve identificare il proprio
sé con nessuna delle figure e dei poteri sperimentati. Lo yogi indiano, che lotta per giungere alla
liberazione, s'identifica con la Luce e non torna più indietro; ma nessuno che abbia la volontà di
servire gli altri e di servire la vita concederebbe a se stesso una simile fuga. Lo scopo supremo della
ricerca, se è stabilito che si torni indietro, non dev'essere né la liberazione, né l'estasi del singolo,
ma la saggezza e la forza di servire gli altri.
Anche nel mondo occidentale troviamo un racconto, grandioso e famoso, di un viaggio verso la
regione della Luce: è quello, durato dieci anni, di Ulisse. L'eroe di Omero, come l'ufficiale Watkins
della Marina britannica, era un guerriero che tornava, dopo lunghi anni di guerra, alla sua vita
domestica, e si trovava quindi nella necessità di cambiare radicalmente l'atteggiamento psicologico
avuto fino a quel momento. Tutti conosciamo la sua storia. Ulisse, partito da Troia dopo averla
conquistata, con dodici navi giunse in un porto della Tracia, Ismaro, lo saccheggiò, ne uccise gli
abitanti e, impossessatosi delle donne e delle ricchezze, le distribuì poi ai suoi uomini. Chiaramente,
un bruto di tale tutta non era pronto per la vita domestica: occorreva un cambiamento completo di
carattere. E gli dei, sempre attenti a queste cose, fecero in modo che egli cadesse in mani
competenti.
Per prima cosa Giove mandò contro di lui una terribile tempesta, che fece a pezzi le vele e
sospinse per nove giorni le navi fino alla terra dei Lotofagi. La terra di quella droga allucinogena
detta 'oblio' dove, come Watkins nel manicomio, Ulisse e i suoi compagni furono fatti navigare
attraverso un mare di sogni. Viene poi la serie delle loro avventure mitologiche, completamente
diverse da qualsiasi cosa essi avessero mai conosciuto.
Ci fu, dapprima, l'incontro con i Ciclopi e la fuga, costata assai cara, dalla terribile caverna di
Polifemo. Segui un periodo di euforia mentre veleggiavano con il favore dei venti inviati dal dio
Eolo. Ma sopraggiunse la bonaccia e le grandi navi dovettero essere sospinte con l'aiuto dei remi e
con fatica sovrumana. Riuscirono così a toccare terra, cioè l'isola dei Lestrigoni, un popolo
cannibale che affondò undici delle dodici navi. Ulisse, di fronte a forze che gli era impossibile
combattere, riuscì a fuggire sull'ultima nave rimasta insieme col suo equipaggio atterrito. Sempre
costretti a remare, esausti, in un mare di bonaccia costante, Ulisse e i suoi raggiunsero il luogo che
doveva rivelarsi il culmine del loro terribile viaggio sul mare della notte: l'isola di Circe dalle
chiome intrecciate, la ninfa che trasformava gli uomini in porci.
Circe era uno di quegli esseri femminili che il nostro eroe, già così umiliato, non avrebbe certo
potuto trattare come un bottino di guerra: troppi i suoi poteri! Fortunatamente per Ulisse e per la sua
fama, però, il protettore e guida delle anime morte pronte alla rinascita, il dio misterico Ermes,
giunse a dargli protezione: con un consiglio e con un amuleto. Così, invece di subire la
metamorfosi, l'intrepido navigatore, protetto dal dio, finì prima nel letto di Circe e poi, aiutato dalla
maga, raggiunse il mondo degli inferi per incontrare le anime dei suoi avi. Qui Ulisse trovò anche
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 16
Tiresia, il cieco vate nel quale si uniscono la saggezza maschile e quella femminile; dopo che Ulisse
ebbe imparato da lui tutto ciò che poteva, ritornò, molto migliorato, dalla maga Circe, un tempo
pericolosa e ora sua maestra e guida.
Circe lo aiutò a raggiungere l'isola del Sole, suo padre, dove però, nel luogo che è fonte di ogni
luce, l'unica nave rimasta si schiantò e Ulisse, perduti i suoi compagni, fu gettato in mare e
restituito, da correnti inarrestabili, a Penelope, la moglie terrena, e alla vita di un tempo... Ma sulla
via del ritorno dovette sostare otto anni, presso la materna e non più giovane ninfa Calipso, e un
tempo più breve nell'isola della graziosa Nausicaa, figlia di Alcinoo. Con l'aiuto del re dei Feaci fu
finalmente riportato, immerso in un sonno profondo, alla sua dolce terra e alla sua casa: ora era
pronto per quella vita di marito e padre consapevole che lo attendeva!
Un lato importante di quest'epica del mare oscuro interiore è il modo in cui viene rappresentato
il viaggiatore, che non desidera mai fermarsi in nessuno dei luoghi dove approda. Nella terra dei
mangiatori di loto, i compagni di Ulisse che si cibarono del fiore non sentirono più il desiderio di
ritornare in patria; ma Ulisse li trascinò piangenti alle navi, li legò e fuggì lontano. Durante la sua
idilliaca sosta nell'isola di Calipso, poi, Ulisse se ne stava spesso tutto solo, a guardare lontano sul
mare, verso la sua patria.
Anche Jesse Watkins fu capace, alla fine, di distinguere se stesso, uomo appartenente a questo
nostro mondo, dal pazzo ricoverato in manicomio. Il punto di svolta coincide con l'esperienza della
luce (che in Omero è rappresentata dall'isola del Sole sulla quale si schianta la nave di Ulisse),
quando Watkins intuisce di non essere solamente un folle terrorizzato dall'annientamento totale, ma
anche un uomo che si è psicologicamente dissociato da una forma di vita equilibrata. Siede (come
già sappiamo) sul letto, stringe forte le mani e, pronunciando il suo nome, il nome del suo corpo
terreno, ritorna a sé, come un tuffatore che riemerge alla superficie dalle oscure profondità del mare.
L'immagine mitologica della rinascita è la più comune e appropriata per simboleggiare un
simile ritorno alla vita, intesa come rinascita a un nuovo mondo; la stessa immagine che si presentò
alla mente di Watkins mentre sperimentava questa liberazione spontanea. «Quando ne venni fuori,»
raccontò, «improvvisamente ebbi la sensazione che tutto fosse molto più vero di quanto non fosse
mai stato prima. L'erba era più verde, il sole splendeva più forte, la gente era più viva e io la potevo
distinguere più chiaramente. Potevo vedere la cose cattive e le cose buone, tutto quanto: ero molto
più consapevole.»
«Ne possiamo forse dedurre,» notò R.D. Laing commentando l'esperienza, «che non è dal
viaggio che dobbiamo guarire, poiché questo è solo un modo naturale di uscire dal nostro
terrificante stato di alienazione noto come 'normalità'...
Di opinione molto simile erano anche J.W. Perry e J. Silverman; questa interpretazione venne
avanzata per la prima volta da Jung in un saggio scritto nel 1902 e intitolato Psicologia e patologia
dei cosiddetti fenomeni occulti8.
Ricapitolando, quindi: il viaggio interiore dell'eroe mitologico, dello sciamano, del mistico e
dello schizofrenico è, in teoria, lo stesso; e quando ha luogo il ritorno, la liberazione, questa è
sperimentata come rinascita, la nascita, cioè, di un lo 'nato due volte', non più legato e limitato
dall'orizzonte del suo mondo diurno. Ora sappiamo che questo Io non è che il riflesso di un Sé più
vasto, la cui precisa funzione è di fare in modo che le energie di un sistema istintivo archetipico
possano essere messe in atto vantaggiosamente in una situazione spazio-temporale contemporanea.
Oggi non temiamo più la natura e neppure la società che ne è figlia, anch'essa mostruosa, quanto
basta per poter continuare a vivere. Il nuovo Io è in accordo con tutto questo, in armonia, in pace:
per chi torna dal viaggio, infatti, la vita è più ricca, più forte e più gioiosa.
Il vero problema, dunque, è come compiere il viaggio, o i viaggi (poiché possono essere più di
8 In C.G. Jung Opere, vol. 1, Boringhieri, Torino
Schizofrenia: il viaggio verso l'interno 17
uno) senza naufragare. La risposta non può essere quella di non permettere a un individuo di
diventare pazzo; bensì di insegnargli, prima, qualcosa dello scenario che deve aspettarsi, delle forze
che dovrà affrontare nel viaggio, e offrirgli una sorta di formula grazie alla quale possa riconoscere
e domare queste forze, incorporandone poi le energie. Sigfrido, dopo avere ucciso Fafnir, bevve il
sangue del drago e subito scoprì, con sua grande sorpresa, di capire il linguaggio della natura, la
propria e quella esterna. Non si trasformò in drago, sebbene dal drago avesse tratto quei poteri che
perse quando ritornò nel mondo degli uomini.
C'è sempre, in questo viaggio avventuroso, il grande pericolo di ciò che in psicologia si
definisce 'inflazione': una condizione da cui lo psicotico viene sopraffatto e che lo fa identificare
con l'oggetto della sua visione o col testimone di questa, cioè il soggetto della visione. Il trucco
consiste nel rendersi conto di ciò senza perdercisi dentro; capire, cioè, che possiamo essere tutti
salvatori quando agiamo in relazione ai nostri amici o nemici. Siamo l'immagine di un salvatore, ma
non siamo Il Salvatore, così come possiamo essere padri o madri, ma non saremo mai Il Padre o La
Madre. Quando una fanciulla, crescendo, diventa consapevole del piacere che la sua femminilità in
fiore inizia a suscitare negli altri e dà credito di ciò al proprio Io, e già diventata un pochino pazza.
Sbaglia a collocare la propria identificazione, perché la causa dell'eccitamento che produce negli
altri non è il suo stupito, piccolo Io, ma il nuovo meraviglioso corpo che sta crescendo intorno a
esso.
Ricordo una massima giapponese a proposito delle cinque fasi della vita di un uomo: «A dieci
anni, un animale; a venti, un folle; a trenta, un fallimento; a quaranta, un impostore; a cinquanta, un
criminale». A sessanta, aggiungerei (età nella quale si è già passati attraverso tutto questo), uno
incomincia a dare consigli ai propri amici; a settanta (rendendosi conto di essere stato frainteso), se
ne sta zitto e passa per saggio! «A ottant'anni,» disse poi Confucio, «seppi finalmente quale fosse il
mio posto, e me ne stetti fermo.»
Per concludere, vorrei sottolineare la lezione che offrono questi pensieri espiatori con le parole
conclusive della sublime visione che ebbe san Giovanni nel suo esilio sull'isola di Patmo:
E io vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati e il
mare non esiste più.
E io vidi la città santa, la Gerusalemme nuova, mentre discendeva dal cielo, da presso Dio, preparata
come una sposa che si è abbellita per il suo sposo. E udii una voce potente che parlava dal trono:
«Ecco la tenda di Dio tra gli uomini, egli porrà le sue tende con loro, essi saranno il suo popolo e
Dio stesso sarà con loro e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e la morte non esisterà più, né lutto,
né grida, né sofferenza esisteranno più, perché le cose di prima sono scomparse».
(...) Poi l'angelo mi indicò un fiume di acqua di vita che risplendeva come cristallo e profluiva dal
trono di Dio e dall'agnello. In mezzo alla piazza della città e al fiume, di qua e di là, ci sono degli
alberi di vita che producono dodici frutti, dando ogni mese il suo frutto, e le foglie degli alberi sono
destinate a guarire le nazioni.
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