venerdì 26 febbraio 2010

L'esperienza di derealizzazione, l'inflazione dell'immaginario, il nulla, la fantasia di sparizione.1 Un percorso psicopatologico dal film "The Truman


E' troppo ricco nella messa in scena, troppo perfetto nella fotografia e nel montaggio, Jim Carrey ha troppo la faccia di gomma, è, insomma, troppo hollywoodiano, "The Truman Show", perché lo si possa amare. Tuttavia il film merita una segnalazione, per il tema dello script e per alcune situazioni palesemente leggibili in chiave psicopatologica.

Truman, un tipico american boy, all'età di trent'anni si accorge che tutta la sua vita è una gigantesca soap opera prodotta da un grande network televisivo, realizzata mediante 5000 telecamere posizionate ognidove, centinaia di attori e comparse che mostrano i prodotti di innumerevoli sponsors, e diretta da una navicella spaziale da un regista-onnipotente, di nome Christof. L'esperienza chiave di Truman non è dissimile da quella di frequente riscontro nella clinica delle psicosi: sentimenti di estraneità ambientale e derealizzazione, interpretazioni ed intuizioni deliranti di alcuni eventi ambigui, nascita dei convincimenti circa la falsa identità di chi circonda il paziente, inclusi i parenti stretti, di essere spiati e controllati da telecamere poste nei muri e tra le siepi del giardino e così via: esperienze terrificanti ma sovente effimere quelle riferite dai pazienti, che nel film sono trasfigurate in una storia fantascientifica splendidamente congegnata fin nei particolari contenutistici e formali. La storia di Truman si apre anche ad una interpretazione simbolica e metaforica indicando nello strapotere della televisione su chi la fa e chi ne fruisce l'agente di un controllo sociale un tempo operato dalle religioni, ma soprattutto evidenziando il carattere trascendentale della struttura del rapporto con questo media: Truman è stato creato, diretto e controllato dal regista Christof, ed alla fine dovrà liberamente scegliere se restargli fedele. In questo sfondo metaforico trascendentale ritroviamo temi cari a Peter Weir, soprattutto nel suo capolavoro australiano "Picnic a Hanging Rock" (1975); là il complesso sintomatico derealizzazione -panico-depersonalizzazione - metamorfosi veniva analizzato in un ben preciso contesto storico, simbolico e mitologico2, qui viene mostrato lo sviluppo delirante delle esperienze di depersonalizzazione in una dimensione apparentemente tutta quotidiana ma, in effetti non meno simbolica e metaforica.

La verosimiglianza psicopatologica di "The Truman Show" non si ferma al piano descrittivo, ma affonda anche in alcuni spunti d'interesse psicodinamico, in particolare nello strutturarsi intorno ad un vero e proprio romanzo familiare: il leit motiv della soap opera è infatti la morte per annegamento del padre di Truman che, da piccolo, vi aveva assistito e che rammemora con chiare sfumature di colpa; questa finzione, fatta credere a Truman da tutti, madre compresa, viene sfatata dallo stesso padre che ogni tanto riappare nei panni di un barbone, al punto da far decidere Christof ad utilizzare melodrammaticamente l'incontro e l'abbraccio definitivo tra il figlio ed il padre "risuscitato".

"The Truman Show" conferma la attuale tendenza del cinema a riflettere su se stesso non più col classico espediente del film nel film o della recita nel film, ma nel mostrare storie i cui protagonisti non sono personaggi reali ma virtuali: immagini televisive su viedeotapes, in quello che è forse il prototipo di questo genere cinematografico, e cioè "Videodrome" (1982) di David Cronenberg3, l'immagine di un personaggio del cinema dei telefoni bianchi in "La rosa purpurea del Cairo" di Woody Allen (1985), immagini-ricordi femminili in videotapes in "Sesso, bugie e videotapes" di Soderbergh (1989), un cartone animato, in "Volere volare" di Maurizio Nichetti (1991), il personaggio di un videogioco in "Nirvana" di Gabriele Salvatores (1997), il personaggio in una vita virtuale garantita da una compagnia assicurativa nel recente film spagnolo "Apri gli occhi" (1998). Tutti i protagonisti di questi film sono, con vari accenti emotivi, persecutoriamente ingabbiati in meccanismi che non consentono loro una discriminazione tra reale e virtuale, rendendoli inermi immagini percepibili da tutti, impotenti e smarrite, desiderose soltanto di ridivenire normali esseri in carne ed ossa.

Se da un lato questi film raddoppiano iperrealisticamente il carattere di finzione dell'immagine cinematografica e del voyeurismo che soddisfa, dall'altra mettono in scena una condizione sociale diffusa nella quale le persone si vivono sempre di più come apparenze e personaggi, in un'inflazione dell'immaginario che nasce da una percezione della realtà priva di spessore emotivo: in assenza di un nucleo di identità forte, di "immagini personali interiorizzate" saldamente amalgamate con la matrice affettivo-pulsionale, nessuno può sapere qual'è la propria identità e finisce per identificarla nelle immagini che gli vengono socialmente imposte e/o proposte. La vita è sempre più un sogno, di cui noi siamo i personaggi, ma solo a volte anche i sognatori. Le vite riprese in diretta 24 su 24 su Internet (e l'interesse che hanno suscitato) sembrano al momento l'esempio più radicale di questa tendenza antropologica. Alla fine del film Truman potrà ribellarsi al suo destino preconfezionato e pubblico; ma non si sa che cosa troverà al di là della porta buia che dovrà attraversare: come le ragazze-ninfe scomparse su Hanging Rock, forse il nulla.

E' in questo affascinante finale che "The Truman Show" si sottrae definitivamente alle letture sociologiche per sollevare la questione ontologica dell'esse est percipi, genialmente intuita come essenziale per il cinema nell'unico film ideato da Samuel Beckett e, si ricorderà, interpretato dall'uomo-marionetta/immagine per eccellenza, Buster Keaton: "Film", del 1960, "il più grande film irlandese", come lo ricorda Deleuze4.

Attore quasi unico, Buster Keaton, monocolo (con tanto di benda nera ad un occhio), corre accanto ad un muro per non essere visto, e si rinserra in una stanza dove provvede con sistematicità a eliminare, coprire, velare, ogni finestra, ogni pertugio, occhio, umano o animale, reale o in effige che sia, in una sorta di blindatura paranoicale. Quando l'accurata operazione, che è tutto il film, e nella quale non mancano gags grottesche degne di Beckett non meno che di Keaton (ad esempio il gatto che si ostina a rientrare dalla porta dalla quale viene fatto uscire), si compie, ecco la scoperta dell'orrore: l'unico occhio che non è stato spento è quello, narrante, della macchina da presa, che finora aveva seguito sornionamente di spalle l'ignaro protagonista: "Finchè la percezione resta dietro il protagonista non è pericolosa, perché resta inconscia"4 , quando si rivela nel campo ottico dell'ignaro attore mostra il suo carattere insopprimibilmente legato alla coscienza di sé. Coscienza di sé, coscienza dell'Io, di cui la derealizzazione è tradizionalmente considerata un disturbo, è auto-osservazione. Il circolo sembra chiudersi: se non si è percepiti non si è, se si è percepiti si è, meglio essere un personaggio che niente. Senza di te, senza il tuo sguardo, senza essere qualcosa per te, io sono nulla, dice l'amante all'amato, ma anche il paziente al terapeuta. Ma se ci si rifiuta di essere personaggi di noi stessi, allora nasce la voglia di sparire di Keaton e di Truman, e di tutti gli altri sopra ricordati eroi che si accorgono di essere trasformati in immagini, accomunati dal tropismo mortale che nasce dall'orrore di apparire. Siamo, credo, alla questione fondamentale sul destino della follia, che talora anche il cinema d'Autore riesce a riproporre: laddove il paziente incarna il desiderio radicale di non percepirsi, cioè di non essere più percepito, è abolita la condizione necessaria per qualsivoglia terapia.

Riferimenti bibliografici

1La nozione di fantasia di sparizione, come è noto, è di M.Fagioli. Cfr. Fagioli M (1972), Istinto di morte e conoscenza, Nuove Edizioni Romane, Roma 1996 VIII

2Maggini C., Dalle Luche R.: "Pic nic ad Hanging Rock" e líevidenza enigmatica del mito. In: M.Betti, E. Marchi, G.Zanda, Esperienze Psichiatriche in Video, atti del relativo convegno, Bagni di Lucca 12-13/4/1991, Ed. Maxmaur ñPsichiatria e Territorio.

3Dalle Luche R., Barontini A.: Transfusioni. Saggio di psicopatologia dal cinema di David Cronenberg. Mauro Baroni Editore, Viareggio, 1997.

4 Deleuze G.: Il più grande film irlandese ("Film" di Samuel Beckett). In: Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano, 1996.

La meglio psichiatria. Sullo sfondo de "La meglio gioventù" di M. T. Giordana *

di Giuseppe Riefolo

"E’ matta!", esclama Matteo. Nicola, che ha appena dato un esame a medicina e non sa ancora di cosa si occuperà, si tradisce: "no, non è matta... ha gli occhi intelligenti!" In questo senso il film è la descrizione di una generazione che quegli anni sceglierà di dedicarsi alla psichiatria: molti vi si avvicineranno perché essa rappresentava un ulteriore e singolare ambito in cui si declinavano i conflitti di classe. E "l’ordine psichiatrico" (Castel) riguardava l’incarnazione di un potere enorme ed antico, intoccabile. Molti della nostra generazione, ovviamente, ci si sono ritrovati nel film, ma la sensazione che prevaleva era di ritrovarsi come in un album di fotografie: "altri tempi!". Forse in questo c’è larga parte del successo del film. Accade di ricontattare con emozione e nostalgia un sogno che ha riguardato una generazione e che, finché c’era il sogno, ci si sentiva vivi e giovani, incredibilmente padroni degli anni che c’erano davanti anche perché "i dinosauri che dovevano essere spazzati via" erano davvero giunti – per se stessi – alla fine di un ciclo. Il ciclo della psichiatria veniva da lontano e partiva dal secondo ottocento, dalla fondazione del manicomio come "dispositivo medico della cura della follia" (Fontana). Tuttosommato, un’altra illusione che peraltro era stata sostenuta dalla evidenza che la paralisi generale era dovuta al bacillo della sifilide e la pellagra – che pure era malattia dei poveracci – a carenza della vitamina PP. Il film credo abbia una sostanza di fondo ammiccante (il che non è detto che in un film sia una cosa solo negativa….): ci si ritrova un sogno, sapendo di averlo vissuto e con il vantaggio di poterlo vedere quando ha già declinato l’intera parabola. Ma qui cominciano i problemi che ci riguardano: la parabola è davvero esaurita?. Parlandone con una mia amica, ho capito (mi è sembrato di capire…) che il film non riguarda tutta la meglio gioventù di quegli anni, ma solo quella che ha percorso l’intera parabola che partiva dal ’68 fino ad oggi senza mai ritornare ai compromessi col potere che voleva combattere. Chi si identifica nel film può sognare fino alla fine, perché nessuno dei personaggi del film riguarda molti di quelli che, in realtà, durante il percorso – sia nella società che nella psichiatria – sono saltati sul cavallo del potere e dell’opportunismo: è un film sulla generazione di quegli anni che, nonostante le vicende della vita riesce fino alla fine a rimanere "sana" e coerente, appunto "la meglio". Una parte dello sfondo di queste vicende riguarda la psichiatria esattamente nella misura in cui la questione psichiatrica, in quegli anni, riguardava alcuni della "meglio gioventù" di allora. L’aspetto delicato del film è di non voler sostenere una posizione critica o celebrativa. Naturalmente emerge la parabola della "meglio psichiatria" di allora. Il percorso rimane legato alle vicende personali dei personaggi – Nicola, Giorgia e Matteo – e, pertanto, ciascuno di noi può ritrovare alcune delle antiche emozioni che nella tensione di quegli anni cercavano di farsi strada attraverso l’adesione ad una causa che appariva incredibilmente ovvia.

Lo stesso giorno della prima televisiva di "La meglio gioventù" leggo su La Repubblica una nota su alcuni inediti di Foucault e le sue lezioni all’Accadémie del 1973- ‘74 legate al progetto di dare seguito alle ricerche che avevano portato alla "Storia della follia nell’età classica". Sono gli anni in cui Nicola, senza averlo deciso, si trova a percorrere le motivazioni che lo costringeranno naturalmente a diventare psichiatra e tutto inizia con l’incontro di una giovane, asservita all’ordine psichiatrico che deve essere smentito perché quest’ordine non sa più – sa mai l’abbia fatto – guardare agli occhi delle persone. Il film è feroce, nella sua semplicità, riguardo a questo punto quando attraverso Matteo, descrive la violenza del potere psichiatrico che già denunciava la sua impotenza terapeutica: Il professore di villa Quieta, che cercava una complicità con il volenteroso ed entusiasta giovane il quale doveva "intrattenere" la paziente giovane ma incurabile, si scopre goffo a congedare i pazienti che in modo servile gli stanno lucidando la macchina: "… così per tenerli occupati" spiega a Matteo che, immediatamente da osservatore di un freddo e vuoto potere, come accadeva in quegli anni, ne diventa immediatamente – e per forza di cose – giudice.

La formazione degli psichiatri si fa fuori dal manicomio, anzi la frequentazione del manicomio ti spinge fuori a cercare la sofferenza nella vita e non nel "corpo" (Foucault). Matteo e Nicola devono per questo restituire Giorgia al suo contesto di affetti e liberarla dal potere oppressivo che gli psichiatri, "signori della follia" organizzavano nei loro manicomi "… spazio chiuso per uno scontro dove è questione di vittoria e sottomissione" (Foucault).

La parabola è precisa. L’ideologia che sembrava aver trovato una facile soluzione alle contraddizioni esplicite del potere dell’ordine psichiatrico deve, ben presto fare i conti con la complessità dei conflitti e dell’organizzazione sociale. Un primo esito sarà la colpevolizzazione del contesto che resiste al cambiamento anche se tale contesto è quello a cui appartieni nel quotidiano e negli affetti più semplici, distante dalle organizzazioni di potere. "Giorgia non ha bisogno di un medico… ha bisogno di un padre" grida Matteo al padre di Giorgia, visibilmente impotente ad accogliere la figlia nella sua nuova famiglia che, oramai si è organizzata anche sulla sua assenza. Nicola aggiunge altri buoni motivi a questa tesi: "con tutti i soldi che spende a pagare la clinica, potrebbe tenerla con lei!". Un primo punto. La complessità delle soluzioni che sembravano semplici può portare a non capire la fragilità e le ragioni dell’altro che, anche se molto prossimo, può diventare facilmente un oppositore se non proprio un nemico. Il nostro progetto di liberare il folle dall’ordine psichiatrico comincia a presentare inevitabilmente i suoi limiti e forse le iniziali tesi devono essere riviste, per poter mantenere nella sostanza la innegabile intuizione iniziale che vedeva nel manicomio l’aberrazione di ogni progetto di cura. Ma il manicomio prima che alle periferie delle città è nella testa delle persone e, quindi, ovunque, perché è naturale temere la follia e difendersene in ogni modo. Nicola non lo può ancora sapere e confonde il manicomio con l’origine della follia: se ti liberi dal manicomio recuperi la vita! L’illusione nel film si svela molto presto: "va a comprare tre zatterini" "Io non ce la faccio!" risponde Giorgia. Ma Nicola è certo che essere liberi dal manicomio significa non aver più alcuna difficoltà nelle relazioni col mondo: "è facilissimo!". Giorgia va comprare i zatterini forse perché resa capace dalla potente suggestione della certezza dell’altro. Ma sarà un modo colpevole di restituirla alla cronicità e al manicomio salvando la propria certezza. La cosa che mi fa riflettere è che, nonostante siano passati anni che avrebbero dovuto far riflettere, molte volte, disperati, nel lavoro dei servizi territoriali, cerchiamo di curare con la profonda convinzione nelle nostre certezze. Qualcuno potrebbe mettere questa certezza fra le varianti della "Innocenza violenta" (Bollas) ovvero: "quello che ho fatto è giusto. Ma perché tu non guarisci?".

Cominciano i primi problemi. Giorgia attacca furiosamente Matteo che in un quaderno, è incauto nella sua curiosità di conoscere i segreti della paziente: il vertice da cui cogliere l’oggetto è differente, non è facile – anche se può essere ideologicamente giusto – entrare nell’intimità del paziente. Tutto il percorso sta nel guadagnarsi la sua fiducia ed i pazienti ci vogliono conoscere intimamente per quello che siamo e non per quello che diciamo di essere: quante volte abbiamo aperto incautamente "il loro diario" o abbiamo deciso per loro, certi che stavamo decidendo per il loro interesse! Ricordo ora l’esclamazione di un paziente a cui un servizio aveva organizzato un "programma terapeutico personalizzato" particolarmente strutturato: "dottore, ma bisogna anche capire che sono un malato e che non posso fare tutte quelle cose che mi chiedono di fare!".

Puntualmente, però proprio i pazienti in questi anni ci hanno segnalato che il loro interesse era nel diritto di avere dei terapeuti vivi e preoccupati e non dei soggetti sempre sicuri delle proprie soluzioni che, alla prima prova trovavano il modo – diretto o indiretto - di eclissarsi. Matteo, che aveva attivato tutta la operazione di "liberazione" di Giorgia, non regge la fatica della frustrazione: "Ma è possibile che non si può far niente?"; prende il treno e parte. Non solo va via dalla stazione, ma si trasferisce nettamente dall’altra parte dell’ordine sociale. Molta psichiatria di quegli anni non ha retto alla frustrazione e si è trasferita dall’altra parte. Nell’area della psichiatria illuminata e progressista ciò si è compiuto in due modi: entrambi portano all’eclissi della clinica e dei pazienti. Alcuni (sia singoli operatori che interi servizi) sono passati ad occuparsi di gestione farmacologica e concreta dei pazienti o, delusi dagli iniziali entusiasmi, hanno lasciato i servizi territoriali. Altri, molto presto si sono collocati in posti di potere contribuendo alla costruzione di pachidermici dispositivi di cura, talmente burocratizzati che impegnano gran parte delle risorse per sostenere la sopravvivenza della loro stessa organizzazione: i pazienti, come in una nuova riedizione del manicomio, sono diventati una categoria in nome della quale si organizzano servizi, settori trasversali, gruppi di studio che riescono semplicemente nel progetto effettivo di evitare l’incontro con la soggettività del paziente, ovvero di quella cosa che ogni volta mette in crisi ogni tua certezza e ti costringe ad inventare possibili soluzioni contingenti che, magari dopo poco, bisognerà modificare o abbandonare del tutto. Io lavoro a Roma e non conosco situazioni nel mio contesto dove questo sia stato evitato: occuparsi di clinica rischia di diventare un particolare lusso a fronte dell’impegno che ciascuno affida alle procedure burocratiche o, comunque formali che, quando diventano violentemente eccessive devono, a mio parere, fare riflettere.

Nicola sembra prendersi un ampio periodo di riflessione e si rimette a vivere: l’Islanda, l’amore, la politica, la famiglia. Lo ritroveremo con la foto di Basaglia nel suo studio che si occupa di pazienti difficili. Giorgia viene ripresa dal camaleonte manicomiale che nel frattempo si è camuffato in una piccola struttura in cui i pazienti (magari non più ricoverati in manicomio) vengono trattati come numeri da cui ottenere rette dal convenzionamento. Il servizio che queste strutture forniscono è duplice. Agli psichiatri permettono di sostenere l’avvenuta chiusura dei manicomi e alle famiglie l’evitamento, per rette contenute, della convivenza impossibile con il folle oramai deteriorato. Attenti però, a non sostenere la facile tesi che il deterioramento è dovuto alla istituzione: ricordiamo che alla stazione, molti anni prima, la posizione ideologica di Nicola aveva sostanzialmente consegnato Giorgia– con un fallimento in più – allo spazio delle istituzioni segreganti. Ho visitato personalmente una serie di questi piccoli "manicomietti" che proliferano nella periferia di Roma. La cosa grave è che ho spesso dovuto chiedere loro "il favore" di accogliere qualche mio paziente che non si sapeva proprio dove collocare! Ora ci sarà sicuramente qualcuno che se la prenderà con la "carenza di strutture alternative che la legge 180 aveva previsto". Io penso che la questione non è così semplice e, se non ci sono strutture alternative forse è anche perché non abbiamo saputo inventare soluzioni alternative in questi anni che facessero anche i conti con la innegabile realtà che la cronicità appartiene ai percorsi psicotici ed i manicomi centrano solo perché non sono la cura migliore. Ma le nostre cure sono state sufficienti? Ed i nostri Dipartimenti ciclopici che spazi di cure danno ai pazienti? I manicomietti proliferano per l’assenza di cure, anche se dobbiamo riconoscere che le cure di cui si parla sono qualcosa di terribilmente complesso.

Calma. E’ ovvio che io penso di appartenere a quelli della "meglio psichiatria", ma meglio di chi? E perché?

Qualche giorno fa, mentre ero in coda ad un supermercato mi sento una mano che mi dà un buffetto sulla spalla. La saluto: era Giovanna, una paziente che per anni abbiamo seguito al servizio. Con lei, per anni abbiamo dovuto imparare la tolleranza dei nostri limiti e il potere attivo dei pazienti che vogliono essere curati facendoti capire fino in fondo che cosa significa essere pazzi: i ricoveri, gli inserimenti al centro Diurno, le visite domiciliari… Quando la sofferenza è viva ogni organizzazione è sempre molto parziale a contenerla. Giovanna veniva al servizio con il suo cane pastore e ci metteva paura; tutti si arrabbiavano con l’altro perché non faceva il suo dovere…. Forse la nostra capacità di cura è consistita nella capacità di rimanerle vicino nonostante tutto. Nella coda del supermercato mi sono emozionato a pensare che nessuno degli altri clienti poteva immaginare che quella era stata una grave paziente e che ora faceva la coda come tanti altri perché tutta una famiglia si reggeva sulle sue spalle. Forse questi pazienti ci spingono a capire che non hanno bisogno di precisi "progetti personalizzati", ma di verificare che, nonostante la loro follia gli altri sopravvivono e questo per loro significa rimanere vivi.. Nell’articolo di La Repubblica mi fa riflettere che negli anni della "meglio psichiatria" gente come Foucault e tanti altri intellettuali stranieri guardavano all’Italia dove forse si stava svolgendo la realizzazione di un sogno, mentre già da tempo nessuno più è interessato a questo sogno. Questo dovrebbe fare riflettere soprattutto i "meglio psichiatri" perché non si tratta di un fenomeno di cui possiamo dichiararci vittime, ma semmai capire in che modo ne siamo anche responsabili. Il film non parla di questa psichiatria: Nicola lo troviamo – e lo lasciamo – in uno studio di un presidio territoriale con la foto di Basaglia al muro. Giorgia sembra essersi ripresa la vita grazie alle nuove cure, ma questa volta non si sa niente del percorso e del prezzo che lei ed i suoi psichiatri devono aver pagato. Chissà se l’evoluzione della storia di Giorgia è simile a quella di Giovanna. Non saprei, perché la storia di Giovanna viene dopo "la meglio psichiatria", quella che per necessità doveva avere certezze: ma ora le mura dei manicomi sono storicamente impensabili, mentre i manicomi, nella sostanza, si insinuano sempre più nelle formali certezze di pachidermiche istituzioni che impegnano tutte le loro energie per far sopravvivere se stesse. La mia paura (in un certo senso è una mia convinzione) è che il manicomio non ce lo stanno riconsegnando opachi legislatori che discutono in modo falso e strumentale di riforme della 180, ma è il perenne fantasma che ricompare puntualmente quando non si ha più la capacità –tecnica, fisica ed affettiva – di guardare gli occhi intelligenti dei pazienti.

Tutti i personaggi del film si ritrovano intimamente nella casa in campagna dove si ricompongono conflitti e soprattutto lutti. La fine del film può essere irritante perché ti ripropone la fusionalità di un sogno, dove si ritorna ad essere quelli dell’inizio del sogno e, soprattutto, hai paura che tutto quello che è successo può essere stato solo un sogno.

C’è stato un periodo in cui si è formata la meglio psichiatria che si conosca. E’ possibile che questa psichiatria si sia fermata in un casolare della campagna toscana a continuare a sognare di curare profonde ferite attraverso la riproposizione di modalità terapeutiche riparative di ordine fusionale, ma io penso che, ricomposto l’entusiasmo, questo possa essere un necessario periodo di riflessione per non perdere quello che di buono e di irrinunciabile c’è stato. Questo, forse è il piccolo grande limite del film: la sottile vena di nostalgia che hai nel rivedere le foto in un album, spesso ti impedisce di lasciare il casolare della campagna toscana ed accettare che non puoi sostituirti ad uno che è morto perché siamo chiamati ad accettare che negli occhi intelligenti dei figli e delle mogli forse rimarrà sempre la disperazione per qualcosa che hanno perso, e rispetto a questo è vitale riconoscersi impotenti, ma non sconfitti. La meglio psichiatria di quegli anni forse non poteva tollerare questi lutti. La psichiatria che viene fatica a lasciare il casolare della campagna toscana. Speriamo di non doverlo lasciare, solo perché qualcuno ci sfratta. In quel caso – ma potremmo cominciare già da ora – non è il caso di fare troppo le vittime, perché è naturale che ognuno faccia il proprio mestiere.

* Articolo pubblicato in versione abbreviata su "L'unità" del 20-12-2003

giovedì 25 febbraio 2010

BISUSCHIO


Bisuschio (Bisusc in dialetto lombardo occidentale) è un comune di oltre 4.000 abitanti della provincia di Varese.

Indice

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Amministrazione [modifica]

Sindaco: Silvano Pisani (In comune per il comune) dal 07/06/2009
Centralino del comune:
Posta elettronica: segreteria@comune.bisuschio.va.it

Evoluzione demografica [modifica]

Abitanti censiti

Cenni storici [modifica]

Preistoria e protostoria [modifica]

Bisuschio si trova in Valceresio che è un'ampia fenditura, ariosa e solare che si dispiega tra il Lago di Lugano e la città di Varese. Similmente ad altre valli del Varesotto, ha costituito una comoda e diretta via di transito tra i valichi alpini e la pianura. Nel Triassico (220 milioni di anni fa), buona parte della Valceresio e quindi anche Bisuschio, era coperta dal cosiddetto Mare di Besano, della cui esistenza sono prove le rocce bituminose presenti in gran quantità sulle pendici dei monti circostanti ed i tanti reperti fossili. Testimonianze di vita preistorica sono state individuate in varie parti della valle. Secondo una leggenda proprio a Bisuschio, all'interno di boschi intricati, dov'era sicura l'esistenza di lupi ed orsi, sembra che vivesse una setta di Druidi, che provvedevano al seppellimento dei morti [senza fonte].

Alto medioevo [modifica]

Tutta la valle passa poi sotto il dominio dei Romani che la tengono per molti secoli e resistono alle pressioni dei barbari (soprattutto Reti, popolazioni d'oltre Gottardo), proprio per l'importanza che essa rappresenta quale via di comunicazione. In questo periodo, tra la fine della dominazione romana e le invasioni barbariche, il piccolo villaggio prende probabilmente il suo nome, che secondo tradizione deriverebbe dal latino Bis - ustum, che significa "arso due volte", probabile ricordo di due incendi subiti per mano dei Reti e dei Franchi.

Anche le varie località del paese hanno nomi a cui vari storici hanno date varie interpretazioni: Piamo: deriva il suo nome dalla parola lombarda "Pain" che indica un tratto di superficie non inclinata che interrompe la ripidità di un pendio montano. Pogliana: deriva probabilmente il suo nome dal cognome della famiglia Pogliani. Un'altra ipotesi la farebbe derivare dal gentilizio romano Publius con l'aggiunta dell'aggettivo in -ana. Ravasina: deriva il suo nome dal cognome Ravasio (e questo da Rava-Rapa) oppure similmente alla parola bergamasca Ravas = Rapace. Rossaga: deriva il suo nome dal gentilizio romano Roscius con l'aggiunta del sufficco -aca. Zerbi: deriva il suo nome dall'aggettivo lombardo Zerb, che significa terreno incolto. Ponte: forse dalla presenza di un ponte.

Panorama del centro storico del paese; in risalto il campanile della chiesa di San Giuseppe.

Sembra che in età tardo-imperiale esistesse a Bisuschio una torre di guardia, anche se finora non ne è stata accertata l'esistenza. Sicuramente è difficile ricostruire le vicende che riguardarono Bisuschio fino all'anno 1000, infatti i primi documenti storicamente riconducibili a Bisuschio sono della prima metà del XI secolo e si tratta di atti notarili di compravendita principalmente terreni tra la Badia di San Gemolo di Ganna e vari abitanti del luogo. Bisuschio era parte del Contado del Seprio.

Basso Medioevo [modifica]

Dal XIII secolo Bisuschio segue le vicende del Ducato di Milano e viene concessa in feudo, come tutta la Pieve, prima agli Arcimboldi e successivamente ai Borromeo, Litta, Arese. Durante questo periodo giunge a Bisuschio da Milano la ricca famiglia Mozzoni che tanto modificherà le vicende del paese.

Doveva essere molto selvaggia la Valceresio nella seconda metà del XV secolo. Ciò è testimoniato dal fatto che i Mozzoni eressero un casino di caccia all'orso. Nell'autunno del 1476 il Duca di Milano Galeazzo Maria Sforza fu invitato ad una battuta di caccia presso Villa Cicogna Mozzoni.

Monumenti e chiese [modifica]

Si tratta di un esempio di "villa di delizia" e fu costantemente abitata fino a qualche anno fa. Nata come casino di caccia ad orsi e cinghiali e durante il XVI secolo assunse le forme architettoniche attuali, salvo gli stupendi giardini, in parte sistemati all'italiana ed in parte all'inglese con scalinata e ninfeo. Furono infatti aggiunti successivamente, su distinti livelli, uno per piano, allo scopo di razionalizzare gli ingressi ed ampliare le vedute. Nei porticati conserva tracce di affreschi inneggianti alla natura ed all'interno fantastiche vedute della Valceresio: tali opere d'arte sono attribuite ai fratelli Campi ed alla loro bottega. Sia gli ambienti d'onore e di ricevimento, sia quelli privati presentano arredamenti di diverse epoche, pavimenti originali, soffitti a cassettoni. È senza dubbio la più bella dimora rinascimentale di campagna dell'intera Lombardia.

Facciata della chiesa di San Giorgio Martire.
  • Chiesa parrocchiale di San Giorgio Martire.

Una nota di un documento, datato 1565, registrato presso l'archivio Cicogna Mozzoni recita così: 7 magio s'è dato prencipio a la giesa. La costruzione di tale chiesa fu voluta dalla famiglia Mozzoni, prima nella persona di Francesco, poi nella persona della di lui figlia, Cecilia. Nell'anno 1565, Bisuschio ancora faceva parte della parrocchia della vicina Arcisate; il distaccamento dalla matrice poteva avvenire solo con una chiesa in stato decoroso: tra le sue chiese, Bisuschio non ne annoverava una che soddisfacesse questo requisito. Da qui la decisione di erigere una nuova chiesa. La dedica a San Giorgio non fu casuale: esisteva, infatti, nella parte alta del paese, nei pressi della dimora dei Mozzoni, un'antica chiesa dedicata al santo, chiamata San Giorgio in Monte. Cecilia Mozzoni, con la promessa di far innalzare un nuovo edificio religioso, comprò il terreno di proprietà dell'antica chiesetta, che fece abbattere, potendo così ampliare il giardino della sua dimora e riutilizzando le macerie come decorazione. La nuova chiesa sorse in tutt'altra posizione, fuori dalle "mura" del paese, in zona pianeggiante e questo le valse l'appellativo di San Giorgio al piano. Ora questa denominazione si è persa, dato che si è perso anche il ricordo della chiesa in monte, rimanendo semplicemente "San Giorgio". Sul luogo prescelto, un tempo, sorgeva una chiesa dedicata a San Bernardino, innalzata nel 1444, ma, evidentemente, caduta prima del 1565. Per il nuovo edificio si optò per un sobrio classicismo. Fu progettato in tre navate, scandite da colonne in pietra di Viggiù. Durante la sua costruzione non mancarono gli incidenti di percorso: infatti ci fu una lunga sospensione dei lavori e un crollo parziale. Tuttavia, nel 1603, la nuova chiesa era pronta: Bisuschio ottenne il distaccamento da Arcisate nel 1605 e la nuova chiesa fu innalzata a parrocchiale. Nonostante i numerosi interventi nel corso dei secoli, l'aspetto attuale della chiesa rispetta in gran parte l'aspetto del tempo, soprattutto per quanto riguarda l'interno. La facciata è, a grandi linee, classica: a salienti, scandita da lesene. Mostra, tuttavia, dei rimaneggiamenti sette-ottocenteschi, come la cornice barocca sopra l'entrata principale, che racchiude un mosaico (fino a qualche anno fa, un affresco, opera di Giuseppe Colombo) che rappresenta San Giorgio e il drago, le tre finestre ad arco, le due "guglie" piramidali laterali, di ispirazione neogotica, i due putti che sostengono una croce in ferro, proprio al vertice del timpano ecc. Originariamente gli altari erano tre: l'altare maggiore, l'altare della Natività della Vergine (a sinistra) e l'altare della SS. Trinità (a destra).

Nell'Ottocento e nel Novecento sono stati aggiunti: l'altare del Sacro Cuore (a destra) e l'altare della Madonna di Lourdes (a sinistra). Nel 1872, la facciata della chiesa venne "smontata" e ricostruita tre 3,80 m più avanti; lo stesso avvenne per il presbiterio: la chiesa, infatti, era stata giudicata troppo angusta per la folla crescente dei fedeli. In questo modo si poté costruire anche il matroneo, che sporge esattamente di 3,80 m sopra l'ingresso principale. L'interno è ancora strutturato su tre navate e ha, come accennato, cinque altari. L'attuale altare maggiore è in marmo policromo, opera ottocentesca di alcuni artisti viggiutesi. Tra le tele conservate nella chiesa, se ne possono notare tre, tutte seicentesce, di notevoli dimensioni. Una rappresenta la nascita della Vergine e si trova collocata presso l'omonimo altare (si tratta delle sua collocazione originale), l'altra rappresenta i cardinali Federico e Carlo Borromeo e si trova presso l'altare della SS Trinità (sua collocazione originale); la terza rappresenta San Giorgio che uccide il drago, attribuita a Camillo Procaccini; si trova sul lato destro del presbiterio. Gli abitanti della comunità di Bisuschio l'avevano acquistato a Milano. Due bisuschiesi: Giuseppe e Angelo Comolli, padre e figlio, affrescarono, tra il 1889 e il 1893, gli Evangelisti e altre figure dell'antico e del nuovo Testamento sulle volte, mentre le pareti vennero dipinte di una bella tonalità di blu, con motivi dorati. Purtroppo, gran parte di questi affreschi sono stati ricoperti durante gli anni settanta con delle tempere di colore chiaro. La decorazione dorata su sfondo blu è stata conservata solo nel catino absidale, mentre sono stati conservati altri affreschi sulla volta della navata maggiore. Il pavimento, anch'esso ottocentesco, è in lastroni quadrati in pietra nera e bianca di Saltrio.

Nel 1818 si posarono gli stalli del coro (nell'emiciclo absidale) e l'organo, collocato nella tribuna a sinistra dell'altare maggiore. Proprio l'organo venne restaurato più volte: nel 1856, nel 1874 e nel 1927. Nel 1928, si decise di spostarlo e di collocarlo in quella che fino a qualche anno fa era la sua posizione: tra il coro. L'organo diede i suoi ultimi concerti tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta. La rottura di un mantice lo ha reso muto, ma, invece che ripararlo, si è preferito smantellarlo. La chiesa ha due sacrestie: una sul lato destro (la più antica) e una sul lato sinistro (quella in uso tuttora). La sacrestia più recente risale ai primi decenni del Settecento, quando, in occasione della sua costruzione, venne ampliata anche quella vecchia. I mobili delle due sacrestie sono di epoca settecentesca e di fattura molto pregevole. Il campanile risale ai primi anni del Seicento: dapprima portava solo una campanella, trasportata, nel 1694, dalla chiesa di san Giuseppe. Nel 1652 se ne aggiunse una seconda e nel 1671 una terza. Nel 1761 si decise di portare a quattro il numero delle campane: le tre esistenti si portarono a Milano, dove già era stata ordinata la quarta, per farle rifondere. In quell'occasione, si ristrutturò il campanile. Nel 1810, il castello delle campane era di nuovo in cattive condizioni, quindi le quattro campane si abbassarono perché si potessero fare le dovute riparazioni. Cominciò a circolare l'idea di avere cinque campane, come già era avvenuto per altri paesi della valle. Ma Bisuschio non ottenne il permesso di posare la quinta campana. Ma, proprio prima di ricollocarle, le campane furono incrinate... non si verrà mai scoperto il colpevole. Si portarono così a Milano per la rifonderle e si ordinò una quinta campana. Nel 1905, in occasione del terzo centenario della parrocchia, si decise per un nuovo concerto in do grave (l'attuale): le cinque campane si portarono a Milano, presso la ditta Barigozzi, per la fusione. Siccome il bronzo delle vecchie campane era insufficiente, si fusero anche dei vecchi cannoni spagnoli dei secoli passati. Verso l'inizio degli anni ottanta, la seconda campana (RE) si era incrinata e le era stato tolto il battacchio per evitarle ulteriori danni: quindi non suonavano che quattro campane. Nel 2005, in occasione del quarto centenario della parrocchia, si è deciso di ridare a Bisuschio un concerto a cinque campane. La campana incrinata non è stata riparata, ma ne è stata ordinata una nuova presso la ditta Capanni di Reggio Emilia. La nuova campana è stata benedetta il 25 maggio 2005; la posa è avvenuta il 4 luglio 2005, mentre i primi concerti sono iniziati il 6 luglio. La vecchia campana fa ora mostra di sé davanti alla chiesa.

  • Chiesa di San Giuseppe. Si trova a poca distanza dalla precedente, in pieno centro storico. È un oratorio di modeste dimensioni: infatti è costituito da un'unica navata, con l'altare orientato verso nord. Per molti anni trascurata e dimenticata, si è deciso di darle nuova vita per il Giubileo del 2000. I lavori, iniziati nel 1998, hanno permesso di studiare meglio la storia di questa chisetta, storia fino ad allora pressoché sconosciuta. L'attuale forma e orientamento risalgono agli anno '30 del XVII secolo, quando venne ampliata per volere (e a spese) della famiglia Cicogna Mozzoni, per darla come sede alla Scuola del Santissimo, costituita su licenza del cardinale Federico Borromeo nel 1627.

Altri progetti [modifica]

venerdì 12 febbraio 2010

Inti-Illimani

Gli Inti-Illimani sono un gruppo vocale e strumentale cileno che si forma nel 1967 nell'ambito del movimento della Nueva Canción Chilena e tuttora attivo.
Il nome è composto da due parole: Inti (parola Quechua che significa sole) ed Illimani (nome Aymara di una cima della catena delle Ande). Costretti all'esilio in conseguenza del golpe cileno del 1973, rientrano in patria nel 1988 dove proseguono l'attività musicale anche attraverso un rinnovamento nel repertorio e nella composizione del gruppo stesso.

Indice

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La storia [modifica]

Il gruppo nasce nel 1967, all'interno dell'Università Tecnica di Santiago del Cile, con un continuo avvicendarsi di elementi al suo interno nei primi anni. Dopo le tournée in Sud America, arriva nel 1973 la prima in Europa durante la quale gli Inti Illimani divengono esuli forzati a causa del colpo di stato di Augusto Pinochet. L'esilio in Italia, dove ai membri del gruppo venne riconosciuto il diritto di asilo politico, durò dal 1973 al 1988. Il gruppo visse l'esilio inizialmente a Genzano di Roma per poi stabilirsi a Roma, da dove appoggiò le campagne per la restaurazione della democrazia nel paese d'origine.

Nel 1973 il gruppo è formato da:

e rimarrà tale per tutto il tempo dell'esilio; le uniche variazioni verranno dall'uscita di Jose Miguel Camus, sostituito nel 1978 da Marcelo Coulon, fratello del fondatore Jorge, e dall'inserimento di Renato Freyggang dal 1984. Da ricordare l'apporto del valente musicista venezuelano Jorge Ball, che farà parte del gruppo per circa 2 anni dal 1982 al 1984 e successivamente, a tappe alterne in altri periodi temporali.

Il gruppo inizialmente era capeggiato, musicalmente, da Horacio Salinas e, politicamente, da Jorge Coulon. Tra il 1998 ed il 2003, in tempi e circostanze diverse, quindi, dal gruppo fuoriescono tre componenti (José Seves, Horacio Durán e Horacio Salinas). Vengono rimpiazzati da Manuel Meriño (dagli Entrama), Cristián González e Juan Flores dagli Illapu.

Data l'importanza dei componenti fuoriusciti, si pone la questione di chi ha il diritto a mantenere il nome Inti-Illimani. Nel frattempo, i tre componenti fuoriusciti formano un proprio gruppo che chiamano Inti-Histórico.

Dal 2005 ci sono due gruppi:

  • Inti-Illimani (fratelli Coulon).
  • Inti-Histórico (José Seves, Horacio Durán e Horacio Salinas)

La musica [modifica]

Logo degli Inti-Illimani

Nel corso degli anni i sei giovani catalizzano insieme esperienze di vita, musicali, politiche e culturali, per produrre un ampio repertorio. Si caratterizzano per stile musicale e strumentazione, hanno preparazione tecnica e vocale notevole, sebbene abbiano spesso dichiarato di possedere una formazione autodidatta. Il tremolo eseguito con disinvoltura in Mis LLamitas è una tecnica che non viene sottovalutata neanche dai grandi maestri della chitarra classica.

Nella loro opera musicale i brani spaziano dalla caratterizzazione tipica della musica andina alla canzone rivoluzionaria, con un'ampia gamma di colorazioni intermedie, insolite ed originali.

Non si riesce tuttavia circoscrivere la loro produzione a una corrente artistica (come è avvenuto, ad esempio, nel rock o nella musica dei cantautori): musica e stile restano unici ed irripetuti, dando al gruppo una fama e una longevità di gran lunga superiori a quella del resto del movimento. L'attività musicale parte dall'arrangiamento di temi popolari e folkloristici, per prodursi poi in piccole opere autonome che sono, in alcuni casi, anche ben elaborate. Si può dire che la loro sia una continua ricerca di nuovi sviluppi, con un repertorio pieno di combinazioni armoniche ritmiche e stilistiche che pone ogni brano al centro di sé stesso; la varietà risulta perciò talmente ampia da non far notare il fatto che la struttura introduzione-strofe-ritornello è pressoché onnipresente con pochissime eccezioni, ma nelle pochissime eccezioni compaiono strutture sinfoniche ben orchestrate (volutamente non è stato usato il termine arrangiate).

Gli Inti-Illimani al "Galpón Víctor Jara" del 16 settembre 2008

Il repertorio dunque non si stabilizza intorno ad un modello tipo, non vi è la ricerca della combinazione che funziona o ottimale; al contrario mostra molte possibili combinazioni, spesso geniali, sviluppate dalla confluenza di ingredienti semplici ma saggiamente dosati. Anche nelle elaborazioni più ingenue o scontate la valorizzazione massima porta a piccoli grandi capolavori. Tutto ciò riguarda sia il discorso musicale di per sé sia le argomentazioni e la strumentazione. Infatti, nei primi anni, il parco strumenti del gruppo è pressoché statico e prossimi allo 'schema fisso' sono i ruoli vocali e strumentali. Nonostante questa staticità (comunque relativa) riescono a non ripetersi neanche nelle sonorità strumentali e vocali sfruttando al meglio le possibilità tecniche degli strumenti e della voce.

La loro padronanza della tecnica esecutiva ed arrangiativa, che ispirò una serie di artisti come i Grup Yorum, si esprime anche nel fatto che le sofisticazioni armoniche non sono sempre necessarie, stesso dicasi per i virtuosismi vocali. Se America Novia Mia ha una struttura ritmica ed armonica abbastanza semplice e le parti vocali non mostrano un'eccessiva elaborazione, non la si può di certo ritenere una canzone di facile esecuzione; anche alla luce del fatto che costituisce un pezzo di repertorio appartenente ad una fase non giovanile del gruppo si può ritenere qualcosa di più che una semplice messa in musica di un testo poetico. Soprattutto considerando la coda finale, tutt'altro che semplice o canonica. Non mancano poi esibizioni di coralità orchestrale (Patria prisionera, Canto a los caídos, La exiliada del Sur), di colorazione efficace e curata (La segunda independencia, Simón Bolívar, Carnevalito de la quebrada de Hamahuaca), di ricerca di tradizioni profonde nei brani (Señora Chichera, Flor de Sancayo).

Numerosi i brani allegri nella musica ma struggenti nei testi (Lamento dell'Indio, Taita Salasaca); altrettanto frequenti i brani strumentali, dedicati alle località (Alturas, Chiloe, Ramis).

Vengono prodotte anche strutture musicali complesse (Huajira, Canto a los caídos, Chiloe), brani che si evolvono in maniera sinfonica con strutture armoniche sapientemente dosate, con ritmo (musica)ritmi che non sono semplice accompagnamento di base, ma che vanno a costituire parte orchestrale.

Gli strumenti [modifica]

Gli Inti Illimani utilizzano un parco strumenti vario comprendente quelli provenienti dalla tradizione popolare: chitarra, tiple colombiano, charango, cuatro venezuelano, sikus, quena, rondador, bombo leguero, zampoña, maracas, guiro, quijada e pandereta, a cui si affiancano strumenti provenienti dalla musica colta come violoncello, contrabbasso e violino

Il Repertorio [modifica]

Nel suo repertorio il gruppo comprende, inizialmente, a fianco di brani e musiche tradizionali, molti brani di altri autori cileni come Violeta Parra e Víctor Jara.
Con gli anni inizia anche una produzione originale e l'utilizzo di testi di poeti come Pablo Neruda e Rafael Alberti

Discografia [modifica]

Dischi realizzati insieme ad altri artisti [modifica]